Hotel America


Contrordine dagli USA: anche i padri servono

di Vittorio Zucconi

Sicuramente in ritardo per quanto mi riguarda leggo, in occasione della Festa del Papà (negli Stati Uniti si celebra in giugno), un formidabile studio sui padri. Il titolo, tanto per non girarci attorno, è diretto e brutale: Do fathers matter? I padri hanno importanza? Nel tempo delle maternità “single”, la domanda può sembrare provocatoria. Davanti alle migliaia di figli e figlie di madri sole, di coppie di persone dello stesso sesso o costrette a vivere la paternità con i limiti imposti dai tribunali, è evidente che i bambini possano crescere anche senza la tradizionale figura del papà che rincasa la sera. Ma questo massiccio lavoro – condotto da un professore del Mit di Boston senza alcuna concessione alle carinerie da talk show televisivo – si spinge oltre la classica discussione sui ruoli dei genitori. Risale ai mesi della gravidanza, quando (ed è questa la scoperta) nei maschi della nostra specie il livello del testosterone, cioè l’ormone della virilità, decresce. Come se la natura, con i suoi millenni di esperienza, volesse preparare il padre a un ruolo di cura, di assistenza, di “maternità diverso da quello del temerario cacciatore di belve e selvaggina. Senza arrivare ai famosi estremi degli indigeni in Nuova Guinea (che soffrono dei sintomi della gravidanza, dalle nausee fino al travaglio) l’autore, Paul Raeburn, osserva come una nuova ondata di ricerche abbia cominciato a concentrarsi sulla figura e sul ruolo del padre. E ha concluso che la risposta alla domanda del titolo è sì: i papà hanno un’importanza enorme, fin dal concepimento. Siamo ben oltre le mode tanto comiche quanto innocue degli altoparlantini posati sul pancione della mamma per far ascoltare al feto Bach e Mozart o ai dvd di Einstein per neonati, nell’illusione che Pierino o Giorgina imparino a risolvere equazioni trigonometriche prima ancora di avere imparato a farla nel vasino. La presenza attiva e collaborativa del genitore accanto alla madre sembra ridurre sensibilmente alcuni dei rischi della maternità come l’aumento della pressione sanguigna, l’anemia, i parti prematuri, fino alla depressione post parto. «Se rinunciamo a quello che pensiamo debba essere la paternità e guardiamo ai dati, ci accorgiamo che dovremmo fare molto di più per incoraggiare i padri a essere vicini ai figli e alle loro madri», scrive il ricercatore Raeburn. Quanto più modesto è il livello economico, e dunque sociale della famiglia, tanto più importante diventa il ruolo del papà, che tende a mancare proprio nelle case dove dovrebbe essere più presente. Un esempio trascurato, fra i tanti, è il linguaggio, il vocabolario che il neonato e il bambino apprendono principalmente dalla madre e che il padre, con una vita spesso fuori dalla casa, contribuisce senza accorgersene ad arricchire di parole ed espressioni diverse. Nella casa della mia infanzia, questo fondamentale compito paterno della diversificazione del linguaggio si traduceva anche nella ricca semantica delle parolacce paterne, sotto lo sguardo indignato di mia madre, con la giustificazione del «meglio che le sentano in casa». Una teoria pedagogica artigianale, me ne rendo conto, ma non priva di fondamento, visto che ha lasciato i miei fratelli e sorelle – e me – completamente immuni dalla seduzione di chi a scuola, nel lavoro o in politica, usi la volgarità come strumento di seduzione.  Ma il lavoro dell’autorevole professore rileva che, ancora oggi, esiste negli uomini chiamati ad allevare i loro piccoli una notevole resistenza psicologia ad ammettere che il loro ruolo vada, dal concepimento in poi, ben oltre gli sterotipi del “modello maschile” o di colui che provvede, se ci riesce, a mettere i pasti sul tavolo. Una conclusione che ha cominciato a filtrare anche in quella spia infallibile dei cambiamenti che è la lingua. Sono sempre più numerose le coppie nelle quali il padre e la madre dicono: «we are pregnant», «siamo incinta», invece dell’antico «mia moglie è incinta» o «lei aspetta un bambino», come avrei detto io molti anni or sono. Forse, e non voglio giustificarmi a posteriori, è una buona cosa che non l’abbia scoperto prima. Con la mia capacità  di autosuggestione avrei avuto nausee e doglie come gli aborigeni della Nuova Guinea. E mia moglie avrebbe dovuto insegnarmi la respirazione Lamaze.

Dott. House? no grazie, meglio le cure made in Italy

di Vittorio Zucconi

Dottore – spiega il paziente al medico – se schiaccio qui mi fa male E allora lei non schiacci lì, risponde il medico. E’ una vecchissima battutina, citata giusto per strappare un mezzo sorriso prima di entrare in un argomento che ridere non fa, ed è il rapporto fra paziente e dottore negli Stati Uniti. Da cliente bicontinentale quale sono, soggetto alle cure tanto di medici americani quanto di medici italiani, dopo decenni di pediatri, generalisti, radiologi, urologi, dermatologi, cardiologi, ginecologi, ostetrici (questi ultimi due per moglie e figlia, tanto per chiarire) eccetera, ho raggiunto una convinzione: se non ci sono urgenze, preferisco sempre gli italiani agli americani. Sbarazziamo subito il campo dalla tragica e vera casistica della cosiddetta “malasanità”, dalle immagini vergognose di pazienti parcheggiati nei corridoi in attesa di letti che non arriveranno mai. E ricordiamo che, per quanto orribile sia la sanità  in alcuni ospedali e zone d’Italia, anche la più scadente medicina pubblica è meglio di nessuna medicina. Parlo invece del momento nel quale il paziente arriva finalmente davanti al medico per esporgli i propri guai. E’ qui che la superiorità degli italiani sugli americani si manifesta. Esclusi i maleducati, i cani, i frettolosi in camice bianco che esistono in ogni luogo e tempo, di fronte a un medico italiano mi sento ancora un essere umano e non un cliente o un caso clinico. Una persona che ha bisogno, prima di subire una batteria di test ed esami, di qualche conforto. Di fronte al medico americano, la preoccupante sensazione è la stessa che si prova andando a comperare un’auto. Si entra dal concessionario decisi ad acquistare il modello base e si esce con rivestimenti in pelle (la nostra), stereo da concerto allo stadio, cruscotto da cabina di pilotaggio di un bombardiere, bottoniere la cui funzione e utilità  sono destinate a restare misteriose fino alla vendita dell’auto stessa, visto che nessuno, nella storia dell’umanità , ha mai letto le circa 800 pagine del manuale completo. E’ quello che provo davanti all’american doctor, che i telefilm alla Dottor House idealizzano, dai lontani tempi del Dottor Kildare, il progenitore del genere. Si chiama, spiegano i medici americani, “medicina difensiva”. La devono praticare, coprendo il cliente-paziente di ogni esame immaginabile, per difendersi dall’accusa di essere stati superficiali od ottimisti, di avere sbagliato quella diagnosi che avrebbe potuto salvare la vita e per rispondere all’assicurazione che li tartassa. Sull’altare di questo mostruoso complesso medical-industriale-assicurativo, ormai molto più  grande della famigerata lobby militar-industriale, gli Usa sacrificano quasi 3mila miliardi di dollari all’anno, con la spesa pro capite più alta del mondo, 8mila dollari, 6mila euro. Le spese sanitarie sono, con i divorzi, la prima causa di bancarotta privata. Dunque, si ragiona, se l’America spende in sanità più dell’intero Pil italiano, i risultati saranno proporzionati. E invece non lo sono. Con tutti i disastri del nostro Servizio Sanitario scalcagnato la prova finale, la “prova del budino” (che è nel mangiarlo) è a nostro favore. Anno dopo anno, l’attesa di vita alla nascita degli italiani cresce, per le donne a 85 anni e per gli uomini a 81, ottavo posto al mondo, mentre quella americana arranca al 35esimo posto. Con la più alta spesa sanitaria nel mondo, gli americani si comperano 4 anni di vita in meno di noi. Né la sopravvivenza a malattie gravi è più lunga. Ci sono, naturalmente, molte altre cause. Ma per ora, e fino a quando durerà, il confronto con un medico italiano mi terrorizza meno di quello con un suo collega americano che per stare nel sicuro snocciolerà tutte le possibili cause di quell’insistente dolore al ditone del piede, ipotizzando patologie fatali spesso con il nome e il cognome di chi le ha scoperte, che non è mai un buon segno. Anche noi italiani, come tutto il mondo, stiamo incamminandoci lungo quella strada, quella della medicina difensiva, per il medico, e offensiva, con i sedili in pelle (la nostra), per i pazienti. Ci sono giorni nei quali rimpiango il medico di famiglia che usciva dalla visita al capezzale del parente anziano stringendosi nelle spalle. Come va? «Tira avanti», rispondeva. Come facciamo tutti.

Tutto quello che Bunny non può portare via con sè

di Vittorio Zucconi

Sappiamo molto di come vivano i ricchi. Conosciamo invece pochissimo, o nulla, di come vivano la loro morte. Una di queste rarissime occhiate dal buco della cassaforte, l’ha offerta a fine marzo la non prematura dipartita di una signora Virginiana il cui nome non dirà nulla neppure al più accanito consumatore di gossip: Rachel Lowe Lambert Lloyd Mellon, nota agli amici più intimi semplicemente come “Bunny”. Coniglietta.<br />Bunny è mancata all’età di 103 anni. Aveva avuto ampio tempo e mezzi per predisporre tutto lei, nei dettagli dell’addio, dovuto a ovvie cause naturali. Per la cerimonia aveva scelto la chiesa che lei stessa aveva fatto costruire nel 1953, a Manassas, in Virginia. Fanatica di giardinaggio, aveva preteso dal pastore episcopale della propria Chiesa uno strappo alla tradizione che proibirebbe addobbi floreali in tempo di Quaresima. Due semplici mazzi di fiori colti dai suoi giardini affiancavano la bara.<br />Per interpretare la musica d’addio aveva convocato un’amica, l’attrice e cantante Bette Midler. Per l’orazione funebre aveva scritturato la voce di Frank Langella, attore pluripremiato e nominato per un Oscar, vedovo di sua figlia Eliza. E con un pizzico di ironia, aveva fatto sapere all’ex senatore e candidato democratico alla Casa Bianca John Edwards che avrebbe gradito la sua presenza alle esequie. Nonostante il senatore avesse sperperato i 700 mila dollari che lei gli aveva donato, da fedele elettrice democratica, per comperare il silenzio della segretaria che lui aveva messo incinta. Edwards si è presentato.<br />Ma è stato all’apertura del testamento che il ventaglio della vita e della ricchezza di questa donna fantasticamente ricca e stupendamente discreta, si è dispiegato. “Bunny” aveva sposato, nel 1932, uno dei finanzieri e industriali più importanti della storia Usa, Paul Mellon, ma non era arrivata a mani vuote. Aveva portato in dote molto più della sua bellezza. Suo nonno aveva inventato il Listerine, il famoso gargarismo che ha rinfrescato l’alito di milioni di persone. Suo padre era stato il padrone delle lamette Gillette.<br />La sua migliore amica, e ospite abituale sull’isola di Nantucket davanti a Hyannis Port, feudo kennedyano, era Jacqueline Kennedy, per la quale Bunny aveva disegnato e avviato il “Giardino della Rose” dietro alla Casa Bianca, dove ora Michelle Obama coltiva carote e peperoni. Hubert De Givenchy, amicissimo, creava per lei modelli esclusivi. Per accudire alle sue 7 abitazioni, da New York alla Virginia, da Parigi ad Amsterdam, da Nantucket alla Florida, aveva a servizio 120 persone.<br />Agli ecologisti della Audobon Society è stata assegnata un’isola nell’Atlantico per farne un santuario per uccelli migratori. Cinquanta milioni andranno alla pinacoteca di Richmond, nella amata Virginia, insieme con qualche Monet e altri dipinti della collezione privata. Un club di appassionati di aeroplanini radiocomandati avrà abbastanza fondi per continuare a far volare modellini per almeno 50 anni. Il maggiordomo preferito diventerà proprietario della casa dove ha lavorato per 40 anni. Il valore totale dell’eredità non è neppure stato calcolato. Centinaia di milioni.<br />Ai sei nipoti saranno distribuiti soldi e forzieri di gioielli da far piangere il Corsaro Nero. Alla sua nipotina più cara andrà una scatola d’oro contenente una collezione di preziosi disegnata per lei da Jean Schlumberger, uno dei soli quattro creatori di gioielli, insieme con Paloma Picasso, Elsa Peretti e il grande architetto Frank Gehry, ai quali Tiffany ha permesso di firmare il proprio lavoro. A Caroline Kennedy, oggi ambasciatrice a Tokyo, ha lasciato una favolosa “broche”, un pezzo unico creato per lei da Van Cleef and Arpels, la maison più cara proprio a Jackie. Caroline era seduta accanto a lei, a Bunny, al funerale della figlia Eliza, uccisa nel 2000 da un camion a Manhattan.<br />Aveva cominciato a dettare le ultime volontà nel 2001, al compimento del novantesimo anno, quando aveva spiegato all’avvocato che «a una certa età è meglio pensare al testamento, prima di perdere la memoria». Non si è dimenticata neppure del figlio del secondo marito, sposato nel 1948, un uomo che lei considerava «un egoista avido di soldi». Gli ha lasciato un cavolo. Ma di finissima porcellana.

Non discutere con chi impugna un’arma di plastica

di Vittorio Zucconi

Nelle remote colline dei monti Badger a est di Seattle, dove è più facile trovare orsi, cervi, castori e tassi che umani, Jack, lo sceriffo del paesino di Benton, correva con le sirene a palla. “C’è sangue dappertutto”, aveva detto una voce di donna. E Jack, che non è un poliziotto di Chicago abituato alle guerriglie urbane, sospettava che quel sangue scorresse dalle bottiglie di whisky, la prima causa delle sparatorie in quella terra. Quando arrivò nella casa di Juanita e Sean Varta vide il sangue e ne vide tanto. Un uomo sensa sensi a terra, Sean, sanguinava a fiotti dal volto sfigurato e dal naso sbriciolato, e una donna singhiozzante, in ginocchio accanto a lui, cercava di scuoterlo, reggendo in mano, ancora calda, l’arma del delitto. Il telecomando della tv. Jack, lo sceriffo di Benton, aveva visto morti e feriti per colpi partiti, volontariamente o meno, dalle armi che e in
quella terre non mancano in ogni casa. Aveva soccorso automobilisti che avevano incontrato cervi maestosi e massicci e qualche escursionista che aveva cercato di fraternizzare con orse a primavera. Però un tentato omicidio con telecomando no, non l’aveva mai visto. Se avesse fatto un po’ di ricerche, il bravo poliziotto del West avrebbe scoperto che il telecomando delle tv è invece una delle armi improprie più micidiali. Da quando la televisione viaggia per cavo o per segnali satellitari e almeno 700 canali sono vomitati dentro le case, le battaglie famigliari per controllare lo scettro a pulsantini causano più di tremila feriti gravi ogni anno e almeno cento morti per lesioni o per insulti cardiaci scatenati da liti furibonde. Neppure la disponibilità e l’economicità dei televisori, che ormai costano nei modelli più piccoli e semplici quanto una cena al ristorante per una famiglia di quattro persone, ha portato la pace tra le coppie, coniugi, conviventi, genitori e figli, perchè cavi e satelliti richiedono sintonizzatori e quindi abbonamenti separati, portando i costi ad altezze inquietanti. Come tutti i conflitti, anche la guerra dei telecomandi subisce il rischio dell’escalation. Dalla semplice zuffa corpo a corpo per strapparsi di mano lo scettro con graffi e dita negli occhi, si passa all’uso di quel randello di plastica sulla faccia del nemico, come nella casa di Benton, e in altri casi all’uso di armi vere. Ad Aiken, in Carolina del Sud, una moglie furibonda ha accoltellato ripetutamente il marito che noin voleva molalre il controllo. A Nashville, in Tennessee, un signore esasperato dopo dieci ore filate di show di cucina ha risolto il problema della monopolizzazione prendendo a mitragliate il televisore stesso e colpendo – pare soltanto per errore – la dolce compagna a una gamba. Un giovane marito a Tulsa, in Oklahoma, ha chiesto il divorzio perchè la sposina gli negava le proprie grazie per punirlo, accusandolo di “fare l’more con il telecomando”. Il giudice ha dato ragione alla donna, assegnandole tutte le proprietà di lui. Televisore e telecomando compreso. Le connotazioni sessuali e le questioni di rapporti di potere fra maschi e femmine sono ovvie e chiare da tempo, come lo è l’effetto scatenante che impugnare quella bacchetta magica può avere. Però l’esplosione dell’offerta televisiva, con dozzine di canali mirati specialmente su nicchie diverse di consumatori – ragazze, donne di mezza età, tossici di sport, shopping, cucina, medicina, commedie, quiz,  gossip e molto altro – ha polverizzato ogni possibilità di equo e solidale compromesso tra le coppie. Le risse domestiche per il telecomando che l’infernale e incolpevole attrezzo scatena sono ormai al quindo posto, dopo i soldi, l’alcol, i tradimenti e l’educazione dei figli fra le cause di violenza domestica. Il quadretto di padre, madre, due figli, cane e il secchio di popcorn seduti davanti al film è ormai anacronistico come la vacanza sulla station wagon. Una soluzione decisamente drastica è quella adottata dal giudice che ha condotto il processo per aggressione aggravata contro la signora Varta. Un anno di reclusione in una cella con il televisore blindato. Per cambiare canale dovrà chiamare ogni volta la guardia carceraria.

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La moglie di un marines non si arrende mai

di Vittoro Zucconi

Nella foto del matrimonio sono due ragazzi in partenza per una passeggiata dentro una grande auto scoperta, nel sole della California. Liz Snell, a 18 anni, indossa ancora il vestito da sposa color crema, scollatissimo, che senza il velo le scopre le spalle magre appoggiate sopra il petto del marito di 20 anni, Brian, splendente nel blu dell’uniforme dei marines. Era il 14 settembre del 2001. Notate la data. Tre giorni prima, l’11 settembre, Brian si era diplomato come marine nella base di Camp Pendleton, in California, mentre all’altro capo degli Stati Uniti quattro jet passeggeri si infilavano nel cuore della storia. Neppure la tragedia aveva fatto spostare la data del matrimonio di Brian e Liz, perchè quello che l’abito non mostrava era il fatto che Liz fosse incinta di due mesi. Nell’aprile del 2002, poche ore dopo il parto della prima bambina, Brian ricevette l’ordine di imbarcarsi per l’Afghanistan. Già altri compagni di corso erano partiti, ma “radio Marine” aveva fatto circolare la notizia che per la fine dell’estate sarebbero tornati a casa. Tutte le guerre, sempre, cominciano con la promessa di riportare i ragazzi (e oggi anche le ragazze) a casa per Natale o per l’autunno. Quello che Brian e Liz non potevano sapere è quella sarebbe divenuta la più lunga guerra nella storia degli Stati Uniti. E la sua missione sarebbe stata soltanto la prima di sette. Per dieci anni, la moglie di Brian, avrebbe ripetuto la stessa routine. Mesi di solitudine, senza notizie se non qualche rara mail quando Brian era in una base, interrotti da rapide, imbarazzate licenze. Un po’ di sesso meccanico nei primi giorni, che aggiunsero alla prima bambina, Kyla, Briannah, seguiti da silenzi, noia, liti e poi il richiamo per una nuova missione. Furono dieci anni nei quali Liz scoprì che dietro le parate e la retorica la moglie del soldato era lasciata a se stessa. Fra i 700 miliardi di spese militari ogni anno, il Pentagono non riusciva a trovare qualche migliaio di dollari per occuparsi di loro. Liz ci provò. Riuscì anche a prendere una laurea online, ma quando finalmente la conseguì la mannaia del crack del 2008 tagliò milioni di occasioni di lavoro. Non erano i soldi a tormentarla. Era la sensazione di non essere una brava moglie per un Marine, era il “complesso dell’inadeguatezza”. Fu una mattina del 2011, il decimo anniversario di quella foto nell’abito crema, mentre le bambine erano a scuola che Liz salì su una sedia della cucina. Passò una corda robusta attorno a una trave del soffitto, annodò un cappio e ci infilò la testa. In bilico sulla seggiola, cercò il coraggio di dare un calcio alla spalliera. Ma quel calcio alla sedia non lo diede. Fu il telefonino in borsetta a salvarla, quel telefonino che le donne tendono sempre a lasciare in borsa e a non portarlo nelle tasche. Quando cominciò a suonare il “ringtone” che Brian aveva confezionato per lei usando una vecchia canzone a loro cara, Bridge Over Troubled Water, di Simon e Garfunkel, tutti i brandelli del passato felice le tornarono alla memoria. “Sono la moglie di un Marine”, disse a se stessa, “non posso arrendermi”. Si sfilò con cura il nodo scorsoio dal collo, facendo attenzione perchè scivolare dalla sedia sarebbe stato fatale. Tornò sulla terra, salì in auto, guidò fino al comando della base e fece irruzione nell’ufficio del gran capo: basta. Se non Mmi restituite mio marito, il padre delle mie figlie, quando torna faccio fuori lui, e poi mi uccido. Aveva violato un intera biblioteca di codici militari, ma vinse la sua battaglia. Brian fu trasferito e riassegnato come sergente istruttore stabile nella base di Camp Lejune, in Nord Caroline. Il Pentagono, scosso dalla rivolta di altre mogli ben più importanti, spose di generali e ammiragli, si è accorto che tra i caduti, i feriti, i traumatizzati dalla guerra senza fine c’erano anche quelli, e quelle, che nessuno conta mai: i coniugi di  militari spediti oltre mare più e più volte. Ha stanziato 700 mila dollari per finanziare associazioni di sostegno e per pagare psichiatri dedicati a loro. Si è cominciato a contare anche quelli che non contano. In attesa che tutte le guerre finiscano per sempre. Naturalmente, prima di Natale.

Quattro conti in tasca alla serata degli Oscar

di Vittorio Zucconi

Se fosse vero che il danaro non fa la felicità, come sostengono coloro che ne hanno tanto e misericordiosamente vogliono far sentire meglio il resto del mondo, quella platea di stelle che la serata dell’Oscar ha illuminato alla fine di febbraio sarebbe stata un congresso di celeberrimi depressi e infelici. E’quindi con profonda pietà e umana solidarietà che torniamo, per un’ultima volta, nel grande teatro sull’Hollywood Boulevard di Los Angeles per frugare nei portafogli e nei borsellini delle celebrità e per vedere a chi si potrebbe assegnare l’Oscar per “La Grande Ricchezza”. Tra gli infelici, ma con ancora qualche sprazzo di felicità, incontriamo Matthew McConaughey, vincitore dell’Oscar come migliore protagonista, per il il film Dallas Buyers’ Club: valeva, fino a ieri, 65 milioni di dollari, secondo i calcoli della Cnbc, la rete di informazioni economiche e finanziarie più seguita d’America. Una buona cifra, ma destinata a raddoppiarsi entro la fine del 2014. Sullo stesso gradino di ricchezza, a 65 milioni, Woody Allen (che era presente in spirito ma non in persona, attraverso il suo Jasmine Blue), Alec Baldwin e Ben Affleck. Decisamente meglio, dunque molto più infelici, a 130 milioni di “portafoglio”, Robin Williams, Al Pacino, Ashton Kutcher (ex marito di Demi Moore e l’attore che ha incarnato Steve Jobs nella biografia del creatore di Apple) e Julia Roberts. Ancora più in alto nella scala del danaro, a 160 milioni, stanno appollaiati George Clooney, Denzel Washington, Bruce Willis, Samuel Jackson, John Travolta, Drew Carey e la signora Kutcher, Demi Moore, che forma con l’ex marito una coppia di facoltosi infelici. Anche per rispetto di anzianità, meglio fa Robert De Niro, con i suoi 185 milioni di “asset”, che è il valore della propria ricchezza al netto dei debiti e delle tasse, eppure ancora di più valgono Will Smith e Tom Cruise con 250 milioni in tasca. Ma il nome più sorprendente e inatteso in questa classifica dei conti in tasca ai “glitterati”, ai personaggi che brillano di “glitter”, di paillettes e lustrini sotto i riflettori, non era nella platea dei premiati, dei nominati, delle celebrità. La più ricca del reame era sul palcoscenico. Era la conduttrice del circo, Ellen DeGeneres, la apparentemente bionda, orgogliosamente sposata dal 2008 con l’attrice Portia De Rossi, che per tre ore ha guidato la massima fiera mondiale delle vanità. Ellen è la prova vivente che i soldi veri, le borse più ricche, oggi sono in televisione, più che nel cinema. I suoi guadagni come presentatrice, produttrice di programmi, sceneggiatrice e doppiatrice di film d’animazione arrivano a 65 milioni all’anno – una cifra da superstar sportiva – e i suoi “asset”, i suoi investimenti e risparmi, superano i 250 milioni. Anche se nessuno fra questi super milionari della “Grande Ricchezza” da spettacolo è nato ricco o famoso, la storia della DeGeneres è particolarmente notevole. E’ nata 56 anni or sono nella provincia più provincia della Louisiana, il profondissimo Sud, in una cittadina di centomila abitanti chiamata Metairie, che ha un solo pregio: quello di essere un sobborgo della vivacissima New Orleans. Nella sua Louisiana, Ellen aveva lavorato come cameriera nella catena di ristoranti TGI Friday, come cassiera nei grandi magazzini J.C. Penney, come barista e come imbianchina. Soltanto nel tempo libero, e naturalmente gratis, aveva cominciato a recitare monologhi comici nei locali di New Orleans, dove fu notata e poi provata negli show televisivi nazionali sempre affamati di nuovi talenti. Avendo quindi espresso tutta le possibili solidarietà e pietà umane per quegli infelici schiacciati dai loro soldi nelle poltroncine di platea, credo si possa esprimere qualche dubbio sulla più ricca di tutti, su Ellen DeGeneres. Per una donna che si è guadagnato ogni dollaro di quei 250 milioni, arrampicandosi sugli scaffali dei negozi di abbigliamento e sulle impalcature dei pittori, il ricordo della fatica fatta per arrivarci deve essere il migliore antidepressivo. E lei potrebbe spiegare meglio di altri che è ora di smetterla di prendere in giro chi i soldi non ce li ha.

La fine del mondo comincia con una lista della spesa

di Vittorio Zucconi

Dai trenta ai quaranta centimetri di neve», annuncia la voce di Mosè dalla radio. Nella solitudine del volante, quelle previsioni di catastrofi bianche risuonano con echi primordiali che nel tragitto verso casa si fanno sempre più  irresistibili. Scatta in testa il catalogo delle cose e della provviste che servirebbero a resistere all’assedio bianco, batterie per le torce, acqua, medicinali, candele, cibarie, carburante per quel piccolo compressore che servirà ad alimentare la stufetta nella stanza dei bambini (non importa se non ho più bambini in casa, quando sei padre una volta lo sarai per sempre). E il sale, chissà perchè il sale, che mia madre comperò a chili nel ’91 quando scoppiò la prima Guerra nel Golfo e lei si convinse che sarebbe partito il terzo conflitto mondiale. Ci si ferma, sfidando la ragionevolezza e l’esperienza, al primo distributore di benzina per fare il pieno e nel supermercato per compere da panico. Soltanto per scoprire che molti altri hanno ascoltato le stesse previsioni del tempo e gli scaffali di quelle provviste sono spogli, anche nell’America della sovrabbondanza. Perchè, proprio nell’America del troppo si vive nel terrore del poco e ci si infetta del virus del survivalist, del sopravvissuto. Da quando il tempo e le previsioni sono diventate notizie che vendono bene e fanno pubblico, il numero di “survivalisti” – purtroppo non c’è traduzione migliore in italiano – o di preppers (coloro che si preparano ad affrontare ogni disastro) continua ad aumentare. Agli antichi mostri dell’olocausto nucleare negli anni 60 si sono sono sovrapposti il terrore delle catastrofi naturali, degli uragani, dei tornado, del fondamentalismo assassino, delle nuove glaciazioni, dei nuovi disgeli, della salita degli oceani e, ultima ma non minima, del collasso economico che renderà il danaro – per chi ce l’ha – inutile. Tra costruzione di rifugi a prova di tutto scavati in giardino, acquisti di armi per difendersi da orde di zombie disperati e kit medico-chirurgici per interventi d’emergenza, l’economia della sopravvivenza muove dieci miliardi di dollari all’anno. Più della spese per i parrucchieri. L’ultima catastrofe è stata all’inizio di questo mese di marzo. Altoparlanti dell’auto mi hanno bombardato con previsioni di mezzo metro di neve su Washington, una città all’altezza di Reggio Calabria che si paralizza, dai treni al governo alle scuole, per una spolverata di “bianca visitatrice”, grazie alla totale imbranatura dei guidatori di mezzi pubblici e privati. Travolto dal panico del capo tribù, mi sono lanciato in un’odissea fra i supermercati della regione prima che cadesse il primo fiocco e si svuotassero. Dovevo completare la lista dei beni assolutamente necessari, enumerati dalla radio secondo il vangelo del survivalista. Riso. Fagioli. Farina di granoturco. Lardo (chi se frega del colestorolo quando stai morendo di fame). Sale (allora la mamma aveva ragione!). Carni in scatola (orrende, ma si deve sopravvivere). Zucchero (per i trigliceridi vedi alla voce: lardo). Burro di noccioline, che detesto, ma è potentemente calorico e sembra duri per l’eternità e anche oltre. Candele, possibilmente nel formato “cero pasquale”. Infine carta e matite, forse per scrivere le memorie di un sepolto vivo alla luce di candele che non possono alimentare il computer nè attivare il wi-fi. Un attivista del “survivalismo” mi raccomandava via radio anche di rifornirmi di monete d’oro e d’argento da usare quando il danaro di carta e i numerini sugli schermi dei computer non avranno più valore, ma non sono riuscito a trovare un supermercato che vendesse dobloni alle sette della sera. E la tormenta è arrivata, puntuale come l’avevano prevista i meteorologi. Ma all’ultimo momento, un sussulto dispettoso nelle correnti in quota hanno spinto il fronte dell’attacco un poco più a sud. Un ruttino di aria calda si è alzato dal Golfo del Messico e l’Apocalisse si è ridotta a quella che gli ignoranti e gli incauti chiamano un po’ di neve. Un po’ mi è dispiaciuto.

L’insostenibile profumo della vendetta

di Vittorio Zucconi

Per l’ultima cena nella casa dove aveva vissuto un lungo matrimonio, Edith Vessey decise per un enorme vassoio di gamberoni, mezzo chilo di finto caviale e una bottiglia di Chardonnay. Dopo trentasette anni di vita accanto all’uomo che l’aveva gettata via per la immancabile giovane segretaria, Edith aveva ricevuto dal tribunale tre giorni soltanto per sloggiare da quella casa di lusso nei sobborghi di Los Angeles che lei aveva accudito e mantenuto. Nel duello fra avvocati divorzisti, quelli del marito erano stati più bravi del suo e il giudice aveva assegnato “il tetto coniugale” a Jake Vessey, concedendo alla moglie 370 mila dollari in liquidazione – diecimila per ogni anno di matrimonio – e appena 72 ore per lasciare la proprietà. Sola nella magnifica cucina che era il gioiello di una casa valutata dai periti del tribunale tre milioni e 700 mila dollari, Edith sgusciò con cura dozzine di gamberoni mangiucchiandone qualcuno e spalmando svogliatamente qualche grammo di pseudo caviale sui crostini. Non era una scorpacciata di crostacei e di uova di pesce quello che aveva in mente. Era una vendetta. Reggendo un sacchetto di plastica con i gusci dei gamberi, Edith cominciò ad arrampicarsi su una scala pieghevole per raggiungere le aste che reggevano le tende nei grandi soggiorni. Svitò la testa dei bastoni e con pazienza, aiutata da un ferro da calza, cominciò a imbottire le aste reggitenda con i resti dei gamberi e qualche cucchiatina di caviale. Finito il lavoro, scolò quel che restava del vino, uscì di casa e raggiunse il piccolo appartamento che aveva affittato. Con la consueta diligenza, la natura cominciò subito a fare il proprio lavoro. Già dal giorno successivo, quando il marito e la sua nuova bella presero possesso della casa, un profumino sottile, ma intenso, di putrefazione aveva cominciato a diffondersi nelle stanze. Furono chiamati gli specialisti in derattizzazione, pensando che qualche sorcio o animaletto da cortile fosse defunto nelle condotte dell’aria condizionata. Dopo di loro, arrivarono gli sterminatori di insetti, fumigando la casa senza successo. Idraulici e impiantisti ispezionarono tubi e caldaie invano, mentre l’inspiegabile odore di pesce marcio rendeva asfissiante l’aria sprigionato apparentemente dal nulla. Gli agenti immobiliari, che erano accorsi in frotte attratti dalla possibile vendita di una villa magnifica, tentarono prima di ridurre il prezzo e poi si arresero. Nessuno dei potenziali acquirenti resisteva più di pochi secondi in quel fetore per il quale nessuno sembrava avere una spiegazione e quindi un rimedio. Nella contea, la villa dei Vessey, già oggetto di invidie, si guadagnò il soprannome di “Stinky House”, la casa della puzza e persino la polizia, in quelle terre influenzate dalla loro principale industria, il cinema, andò a curiosare e ad annusare, forse pensando a una edizione reale del motel di Psycho con un cadavere nascosto. Fu allora che Jake ricevette la telefonata della ex moglie. Con finta premura, Edith s’informò sulla vendita della casa e Jake le confessò che era diventata invendibile a qualsiasi prezzo, che la nuova moglie esasperata lo aveva già lasciato mentre lui era costretto a pagare le pesantissime tasse immobiliari, essendo le autorità fiscali di tutto il mondo notoriamente prive di olfatto. Oh povero il mio Jake, finse di consolarlo lei, ti aiuto io. Sono talmente affezionata a quella casa che te la compero e te la tolgo dai piedi. Edith acquistò la casa per 370 mila dollari, la somma che il marito le aveva versato, un decimo esatto del valore indicato dai periti. Tutto quello che dovette fare fu sostituire le aste delle tende, cambiare le tende che si erano impregnate di puzza e rientrare nella sua casa. C’è stato un tentativo di denuncia fatto dal marito, quando Edith ha raccontato la storia della casa fetente al quotidiano della Orange County, ma neppure i suoi avvocati sono riusciti a convincere il giudice che imbottire le sbarre delle tende con crostacei e caviale sia illegale. Non credo sia necessario aggiungere che cosa lei abbia mangiato la prima sera in cui rientrò nella sua cucina.

Paperone cerca moglie, astenersi Cenerentole

di Vittorio Zucconi

Inevitabile come le malattie di stagione, la Barbie o i mal di pancia per eccesso di dolci, il mito di Cenerentola non credo abbia lasciato indenne bambina al mondo, dopo il 1950 quando uscì la versione animata di Walt Disney. Per diseducativa che sia, per quanto ormai femministicamente scorretta, l’avventura della piccola e maltrattata sguattera orfana, tormentata da matrigna e sorellastre che si fa sposare dal principe e va a vivere a palazzo è troppo seducente perchè non funzioni, generazione dopo generazione, continente dopo continente. Piace proprio per la sua improbabilità che non è soltanto nei topolini sarti, nei cani cocchieri, nella zucca che diventa carrozza o nella fatina con il cronometro implacabile, ma nel fatto che una ragazza assurga di colpo, grazie alla misura del piede, dal sottoscala al massimo vertice della società, sposando addirittura il principe (belloccio, il che non guasta). Nella realtà, di Cenerentole che sposino i principi azzurri ce ne sono pochissime e quelle poche devono firmare duri contratti prematrimoniali e limitare le pretese sul regno, come dovette fare l’impiegata della Microsoft Melinda French quando sposò sua maestà Bill Gates. I ricchi, i potenti, i famosi tendono a coniugarsi fra di loro, non foss’altro perchè in quei circoli si muovono e tra di loro si frequentano. Ma ci sono anche ricchi timidi o imbranati che, nel timore di essere inseguiti da uomini e donne che puntano alla loro ricchezza, più che alla loro personalità o al loro aspetto, restano appiedati. E’ a loro che ha pensato Mairead Molloy. Secondo la legge di mercato, che vuole che se c’è un prurito qualcuno inventerà il dito per grattarlo, Molloy ha creato un sito web di appuntamenti e relazioni serie per l’1 per cento del mondo. Si chiama, nel caso interessasse a lettrici e lettori di questa paginetta, Berkeley International e quello che lo distingue da ormai centinaia di “dating service”, di servizi per cercatori di affetti con qualche click sul computer, è il prezzo del biglietto d’ingresso: 100 mila dollari. Il doppio del reddito medio annuo di un americano. La ragione di questa cifra è dare la certezza della esclusività ai clienti. Chi ha 100 mila dollari da buttare per trovare una compagna o un compagno nel mondo non è un cercatore d’oro, una cacciatrice di doti nè qualcuno che vuole l’avventuretta di una sera. Di loro, evidentemente, già hanno fin troppo. «E’ un investimento nella propria felicità che i miei clienti fanno con la stessa attenzione e con la stessa cura che hanno messo nella loro professione o nei loro investimenti, come dimostra il fatto che abbiano 100mila dollari da spendere», razionalizza il furbissimo Molloy. La sua organizzazione per portafogli solitari è nata negli Stati Uniti ma si è estesa ormai all’Asia e all’Europa, in otto Paesi e sarà estesa anche all’Italia. Le relazioni, i fidanzamenti e i matrimoni sono ormai molti. Spesso anche transnazionali, per esempio fra tedeschi e irlandesi, fra inglesi e francesi, anche fra americani ed europei, perchè chi dispone di 100mila dollari pronta cassa per iscriversi al servizio non ha ovviamente problemi nel saltare su aerei e fare la spola fra nazioni in comode poltrone di prima o in jet privati, evitando quei carri bestiame e quelle tradotte noti ai meno fortunati di loro come “low cost”. Una delle promesse rigorosamente rispettate – e per quella cifra vorrei anche vedere che non le mantenesse –  l’assoluta, infrangibile discrezione. Non vedremo dunque mai, come negli spot che sbocciano sul teleschermi americani, coppie felici che ringraziano questo o quel sito di incontri per averli messi in contatto con l’uomo o la donna della loro vita. Nessun milionario o milionaria che si rispetti vorrà mai farsi riprendere mentre ammette di avere trovato il vero amore sganciano 100 bigliettoni da mille. Ma la prossima volta che vedremo un amore di ricchi e famosi, possibilmente bruttini o un po’ sfioriti, che “stringono il nodo” del contratto matrimoniale, avremo il diritto di chiederci se hanno pagato per annodarlo. Mentre Cenerentola continua a sciacquare le pentole in cucina.

Le parolacce è meglio impararle da piccoli

di Vittorio Zucconi

La nostra squadra era in furiosa rimonta, quando l’arbitro decise di interromperla. Tra le proteste dei nostri eroi, un piccolo branco di coraggiosi brocchetti che avevano ormai il vento alle spalle e sentivano il profumo della vittoria nei nasini, la partita di baseball dovette finire. Il regolamento era il regolamento e gli incontri per bambini di otto anni a quell’ora della sera devono finire. Non te la prendere, cercai di consolare il nipotino (fermi, calma, rilassatevi, fidatevi, non è una rubrica sul nipotino, continuate a leggere sereni) che camminava con la testolona bassa, hai fatto quello hai potuto. «Non è quello, nonno, è che il risultato…. – cercò per un attimo le parole giuste e le trovò – è che la partita è stata così frustrante, così insoddisfacente». Rimasi stupefatto. Da mestierante delle parole quale sono, le parole sono per me importanti e una simile proprietà e precisione di linguaggio, in un bambino all’inizio della terza elementare, mi sorprese. Se avessi dovuto scrivere un pezzo per Repubblica su quella partitella di bambini, non avrei saputo fare meglio. Non rabbia, ma «insoddisfazione e frustrazione», il senso amaro dell’ incompiuto. Il bambino non è un futuro Nobel per la letteratura, anche se noi parenti, e soprattutto nonni, abbiamo la tendenza a pensarlo. Più semplicemente, è uno di quei fortunati che crescono in case dove i genitori non soltanto hanno un vocabolario ricco e corretto, ma, soprattutto, lo usano nella vita quotidiana nei rapporti coi figli. Il vantaggio sociale, o se preferite l’ingiustizia, di crescere in una casa dove si parli correttamente, si affrontino i congiuntivi senza svenire, si rispetti la sintassi, è qualcosa che ogni insegnante delle elementari verifica nel lavoro e che la scuola non sempre riesce a ridurre. Quelle buone espressioni resteranno incollate nella loro memoria, fresca come la carta moschicida. Ma esprimersi con un vocabolario “da grandi” rivolgendosi ai bambini, evitando troppi bamboleggiamenti, passato il tempo della popò e della pappa, ha un ovvio risvolto. Tutti noi adulti usiamo fra di noi le “parolacce”, anche quando la loro popolarità sembra averle depotenziate del contenuto volgare. Basti pensare agli ormai banalizzati “fregare” o “sfigato”. Ci sono padri e madri che s’infuriano quando i figli usano le parole “di quattro lettere” come si dice nel mondo dell’inglese, nel quale quasi tutte le parole più grevi sono, chissà perchè, appunto di quattro lettere. Nella tradizione lontana, a chi usava la “potty mouth”, la bocca come un vasino da notte e pronunciava l’impronunciabile, si faceva lavare la bocca con il nauseante sapone. Per esperienza personale, appartengo alla scuola di coloro che ammettono, con le dovute eccezioni e i limiti del buon gusto, l’uso delle brutte parole in presenza di bambini, per ragioni che mi paiono ovvie. Come, di nuovo, ogni maestro sa, i nostri virgulti parlano come scaricatori di porto fin dalla più tenera età e ormai persino la massima espressione teorica di civiltà e di civismo, la vita della “polis”, la politica, è, più che una “bocca da vasino”, un gabinetto pubblico. In più, come diceva mio padre sotto lo sguardo corrucciato di nostra madre, se i figli le sentono dire in casa non resteranno impressionati e affascinati dal primo compagno di scuola che le usa. E aggiungo una terza ragione: l’ipocrisia. I bambini non sono, se fortunatamente sani, nè sordi nè stupidi. Sentiranno benissimo la mamma, il papà , i nonni che, credendo di non essere ascoltati, parlano con amici al telefono, o discutendo fra di loro, facendo ampio uso di quelle stesse parolacce che a loro costerebbe un castigo. Perchè? Mentre seguivo una partita alla tv, con un nipotino (un altro, non quello sconfitto a baseball, non ho tradito la promessa iniziale), di fronte alla immancabile scandalosa decisione arbitrale contro la nostra squadra, mi scappò un “eccheccazzo” del quale mi pentii subito. Scusami, dissi al piccino, mi è scappata una parolaccia. Non ti preoccupare, nonno, mi rassicurò paterno lui battendomi la manina sulla spalla. La mamma lo dice sempre quando è incazzata con noi.

Ragazzi miei campioni di sesso immaginari

di Vittorio Zucconi

Da passeggero sfortunato che ha perduto il treno della “rivoluzione sessuale”(partito troppo tardi per me e oggi lontano all’orizzonte) e da padre ansioso che vide con il cuore in gola un figlio e una figlia lasciare casa ancora bambini (sono sempre bambini per un padre) diretti verso il college americano e le sue sataniche tentazioni, ho sempre creduto, fra timore e invidia, all’immagine dei dormitori universitari come a luoghi di gigantesche e quotidiane depravazioni. Ora scopro che avevo forse provato timori (e invidie) senza fondamento. Posto che tutte le inchieste e le ricerche sul sesso contengono più menzogne di un comizio politico, (il 50% degli uomini tradisce la sua compagna e l’altro 50% mente, insegna una antica e falsa battuta) la rivista ufficiale americana di Sociologia ha frugato nei dormitori dei college e ha raggiunto la conclusione che i ragazzi di oggi si comportano esattamente come i loro genitori. Il mito della cultura dell'”hookup”, dell’aggancio, della sveltina, dell’incontro di una notte che si sgancia il giorno dopo per rimorchiare un vagone diverso la notte successiva, è, appunto, un mito. Le relazioni intime fra gli studenti di questa prima decade e mezza del XXI secolo hanno la stessa frequenza e la stessa durata di quelle che la generazione dei loro padri e delle loro madri avevano trent’anni or sono. Le coppie che si formano nella forzata convivenza dei dorm, dove le università costringono gli studenti a vivere per incassare più soldi anche oltre le oscene rette da riscatto, tendono a essere di lunga durata e reciprocamente fedeli molto più di quanto i parenti a casa immaginino, pensando a continui riti dionisiaci. E il numero di studenti che sposano i compagni di corso e di alloggio dopo avere lasciato il college è addirittura superiore a quanti rendevano permanente e ufficiale la loro relazione, trent’anni or sono. Segno che c’era fra loro qualche cosa di più serio che una febbriciattola del venerdì sera. La vita reale, dice in sostanza questa ricerca condotta in università di varie regioni e di diversa popolazione, non è un telefilm, un serial, una puntata di Sex and the College, o un “meat market”, un mercato della carne, o non lo è nella misura romanzata e sceneggiata dai produttori. Come non lo sono la frequenza di delitti nei paesi dei don Matteo o del commissario Montalbano. La sbruffonaggine di ragazzi e di ragazze è spesso una gag per prendersi gioco degli adulti, per fare scena, magari per nascondere timidezze o fallimenti. Se tutti dicono di “farlo” come conigli in una conigliera, non posso rivelare di essere io l’unico maschio foruncoloso imbranato o l’unica femmina bruttina sganciata dal convoglio. La classica menzogna del “negare”, in materia di inchieste sul sesso, si rovescia nella menzogna dell'”affermare” quello che poi non si fa. C’è molta più fantasia che realtà, nel film del college visto come una Animal House. Anche le statistiche sulle gravidanze non volute delle teenager che a 17 anni lasciano il nido e volano verso i dormitori ovunque misti indicano nella loro continua diminuzione che ragazzi e ragazze hanno imparato a trattare con più rispetto la propria sessualità. Gli anticoncezionali esistevano 30 anni or sono esattamente come esistono oggi, eppure gli “incidenti” erano più frequenti. Non avendo più figli nei dormitori, ed essendo ancora molto lontana la partenza dei nipoti per il pianeta college, posso leggere con qualche distacco queste ricerche, senza neppure rimpiangere troppo di non avere mai vissuto in un dormitorio di college e di avere perduto il treno della rivoluzione sessuale, avendo avuto in cambio il viaggio di una vita con un amore vero (mia moglie legge questa rubrica). Ma i genitori, anche italiani, di giovani che studiano in università americane possono respirare meglio. I ragazzi e le loro ragazze fanno esattamente quello che loro avevano fatto, alla stessa età e nelle stesse situazioni. Il che, ripensandoci bene, potrebbe preoccuparli.

Mai chiedere come stai a una sconosciuta

di Vittorio Zucconi

Un rompiscatole è uno che quando gli chiedi “come stai” ti risponde raccontando davvero come sta. A questa classica battuta ripenso sempre quando confronto il mondo con il quale estranei, o persone che si frequentano poco, si salutano. Sembrano frasi da buttare, espressioni senza importanza, ma rivelano le enormi differenze che separano le culture, le nazioni e naturalmente gli uomini dalle donne. Prendete due italiani e due americani che s’incontrino e si presentino. La risposta classica di un italiano sarà, il più delle volte, un “non c’è male, grazie”, raramente un “bene”, mai, se non per gli incoscienti temerari decisi a sfottere il destino, un “benissimo”. Il timore che gli dei, irritati da tanta presunzione, lo fulminino sul posto induce alla cautela. Poi prendete due americani. Allo “How are you?” si può scommettere che l’altro replicherà con un “great”, fantastico, mai stato meglio, splendidamente. Non importa se la moglie sia appena fuggita con il personal trainer, se i figli abbiano da poco sfasciato l’auto di famiglia e siano stati espulsi da scuola e la banca l’abbia informato dell’imminente pignoramento della casa causa licenziamento. In una cultura ferocemente competitiva come quella americana, ammettere, anche fugacemente, una debolezza rischia di dare al lupo avversario un vantaggio nel branco. Per un italiano cresciuto all’ombra del pessimismo, un “non c’è male”, “si tira avanti”, o un mesto “ma come vuoi che vada” è prudenza instillata dalla certezza di qualche fregatura incombente. Di natura umana o soprannaturale. La scenetta si rovescia completamente nel caso delle donne americane. Forse perchè non ancora del tutto (e spero mai) contagiate dalla ossessione competitiva dei maschi nonostante la loro importante presenza nell’economia, l’innocente richiesta di sapere “come va?” rischia di produrre una slavina di reciproche e dettagliatissime informazioni medico-sanitarie. Nelle piscine, nei saloni di parrucchiere, nelle caffetterie attorno al bidone di “lattè” (versione americana del caffellatte), negli uffici attorno al boccione dell’acqua, in treno, davanti alle scuole elementari dove a volte vado a recuperare – raro uomo – la nipotanza all’uscita, se due o tre donne non parlano (male) di uomini, probabilità vuole che discutano di salute. Se sono giovani mamme, saranno i malanni dei bambini. Se signore via via più mature saranno i propri disturbi, ma l’elencazione delle patologie di stagione, dei dolori, degli acciacchi, dei consigli medici, delle terapie è il filo di immediata ma innocente intimità, che unisce anche donne con una conoscenza occasionale. Al massimo, due americani in vena di conversazione e di risposta, all’innocuo “How are you?” si concederanno dolenti confessioni sul bagno preso in Borsa puntando sul titolo sbagliato, vanterie sul colpo grosso fatto investendo sulla società consigliata dal cognato, sospiri sul mediocre andamento in campionato della squadra preferita. Mai parlerebbero di politica, troppo pericolosa, e mai di salute, troppo personale. I maschi muoiono notoriamente tutti sani. Ho imparato, non avendo intenzione di spartire con estranei le disastrose avventure dei miei risparmi nè le dissenterie dei nipotini, a evitare con cura ogni “come stai?” o “come va?” rifugiandomi nell’insignificante “Hi!”, versione abbreviata di “Hallo” che non comporta alcuna replica. Se mai vi capitasse di stringere la mano di Presidenti americani, come talvolta è capitato a me, uno “Hi! Mister President” va benissimo. Gli risparmierà di dovervi rispondere chiedendovi “come stai?” Sarebbe sgradevole passare per un rompiballe ed essere tentati di spiegare a un Capo di Stato che la vecchia lesione ai legamenti del ginocchio torna a far male, che dopo cena compaiono bruciori di stomaco, che l’insonnia vi tormenta e che i bambini stanno vomitando con il febbrone per l’immancabile virus parainfluenzale di febbraio. Anche perchè, visti i metodi di sorveglianza elettronica orwelliani di oggi, se davvero al Presidente interessasse sapere come sto di salute, lo saprebbe prima di me.

Beate le mamme che non hanno bisogno di figli eroi

di Vittorio Zucconi

Nel silenzio gelido dell’enorme cimitero di Arlington a Washington, dove il microclima del marmo e della terra sempre smossa di recente porta un lugubre fresco anche d’estate, le file delle lapidi raccontano, ognuna di loro, la storia di una vita chiusa da un proiettile o da una bomba. Ma ce ne sono tre che narrano più della tragedia di uomini e donne divorati dalla guerra, narrano la distruzione di una famiglia e di una madre. Sono le tombe dei tre fratelli Wise, nati in Arkansas e caduti in Afghanistan, Jeremy, Ben e Beau. Quando accompagno amici all’inevitabile visita al mausoleo dei Kennedy, nel cuore del sacrario, do sempre uno sguardo a quelle tre lapidi assolutamente identiche ai reggimenti delle altre, eppure diverse. So che davanti a loro ci sarà una donna di mezza età, Mary Wise, con i suoi fiori, i suoi strofinacci e spray per tenere pulite le lapidi, i suoi occhi ormai asciutti. La famiglia Wise è stata come la famiglia Ryan del famoso film di Spielberg sul soldato da salvare, ma senza quel brandello di lieto fine che il regista aggiunse al suo dramma immaginario. Nella Seconda Guerra Mondiale, e poi fino al 1973 quando fu abolita, anche negli Stati Uniti vigeva la coscrizione obbligatoria, con una minima precauzione umanitaria: per preservare il nome e la continuità della famiglia le Forze Armate non potevano reclutare tutti i fratelli maschi, a meno che si offrissero come volontari. La “legge di Ryan” non esiste più, da quando l’uniforme è una scelta libera e individuale e dunque non ci fu nulla che il padre e la madre dei tre Wise potessero fare. Quando il più grande, Jeremy, si arruolò nelle forze speciali della Marina, i Seals, subito dopo l’orrore delle Due Torri, Jean e Mary Wise si rassegnarono pensando di avere comunque altre due figli. Quando il secondo, Ben, seguì l’esempio del fratello, i genitori si aggrapparono al terzo, al piccolino, al beniamino. L’annuncio che anche lui, Beau, “bello”, un nome abbastanza frequente nel Sud, li avrebbe raggiunti in Afghanistan, li precipitò nell’angoscia delle notti, e dei giorni, in attesa di notizie. Il padre, più della madre, era sbigottito. La famiglia Wise non apparteneva a quella categoria sociale di piccola gente, di agricoltori, di immigrati da poco, di minoranza che forniscono tanti dei volontari alle Forse Armate. Jean Wise era un famoso e stimatissimo chirurgo ortopedico in Arkansas, con una clinica privata tutta sua e una cattedra all’università. I figli eccellevano a scuola e il loro avvenire era garantito. La facoltà di medicina li avrebbe sicuramente accolti e al padre non mancavano i soldi per la retta anche scontata, essendo lui un docente. Il mistero della loro scelta, che li portò uno dopo l’altro ad essere dilaniati dalle mine interrate sotto le strade afghane fu sciolto dal più piccolo, dal cocco della mamma. Ai «perchè, perchè» della madre, Beau, prima di lasciare casa, rispose che il merito era tutto suo, di Mary Wise. «Quando ci mettevi a letto», ha riferito le parole del figlio a un giornale americano la donna curva davanti alle tre lapidi che la direzione del cimitero ha permesso di collocare vicine, nonostante i ragazzi siano morti in tempi diversi, «non ci leggevi favole, storie di orchi o di principi o di sirene. Ci leggevi la vita dei grandi soldati americani del passato, di Washington e di MacArthur, di Patton e di Kennedy con la sua motovedetta nel Pacifico, dei volontari caduti nella Guerra Civile per difendere l’Unione, dei patrioti che avevano lasciato la casa e le famiglie per afferrare lo schioppo e combattere contro i mercenari inglesi. Sei stata tu, mamma, a convincerci che sacrificare la propria vita per il nostro Paese è più importante che avere una laurea in legge o in medicina». Non sappiamo, e non ho mai osato avvicinarla, che cosa ora Mary Wise racconti e legga a quei tre figli per consolare il loro sonno e nessuno di noi può permettersi di rimproverarle niente. Ci penserà già lei, ogni ora della sua vita. Ma se proprio volete raccontare ai vostri figli la storia di qualche generale, leggete loro queste parole di William Tecumseh Sherman, il conquistatore e distruttore di Atlanta nella Guerra Civile americana: «La guerra è un inferno e non c’è modo di renderla migliore. L’eroismo è liquore per ubriacare i ragazzi».

Un portafogli galeotto a Manhattan

di Vittorio Zucconi

Elizabeth faceva shopping a Madison Avenue. Era la settimana di Natale e per lei, newyorkese esiliata per lavoro nelle praterie del Nebraska, quel ritorno per le feste in famiglia a Manhattan, la città dove era nata e cresciuta, era una vertigine della nostalgia e dei rimpianti. Dovette essere un momento di vertigine, nell’ansia di entrare e uscire da negozi, di calcolare quello che il suo stipendio di assistente di Letteratura alla Nebraska University le avrebbe permesso, a farle perdere la testa. Uscendo da un negozio, Elizabeth commise un errore grave. Con le braccia impigliate nei pacchi e nei sacchetti, le mani infreddolite, la testa altrove, Liz (ormai la conosciamo e possiamo chiamarla così) credette di infilare il portafogli nella immancabile borsona da sherpa nepalese che oggi tutte le donne devono portare. Non s’accorse di avere mancato l’apertura. Il portafogli scivolò silenzioso sul marciapiedi. Forse sapete che New York non ha una buonissima fama, in fatto di portafogli, ma sarà stato per via dello spirito natalizio, della distrazione degli altri shopper, del caso, quello rimase a lungo ignorato sul marciapiedi. Lo vide e lo raccolse un signore, anche lui affannato nella corsa agli ultimi acquisti. Era un signore nei vari significati della parola, un uomo di mezza età, manager in una delle odiatissime mega banche di Wall Street. L’uomo, troppo ricco per pensare di tenersi un portafogli altrui, lo aprì. Dentro c’erano 178 dollari in contanti, un po’ di monetine nella parte con lo zipper, due carte di credito, ma non la patente. S’infilò il portafogli nella tasca del cappotto. Lo riprese il giorno dopo, nel suo luminoso ufficio a Times Square. Soltanto allora si accorse che una delle due carte di credito era stata emessa proprio dalla sua ultra mega banca. Chiamò un assistente, un giovane, e gli disse di cercare l’indirizzo di Elizabeth fra i clienti. Cosa che l’assistente, lo chiameremo Frank, fece prontamente, perchè voleva restare assistente del signore. «Che buffo», gli disse soltanto,«è lo stesso nome della fidanzata che avrei dovuto sposare nel 2008». E perchè non la sposasti, gli chiese brusco, ma tanto umano, il capo. «Perchè, ehm, aheeeem, insomma, nel 2008 lavoravo in un’altra finanziaria che fallì e persi il lavoro». Ah, fece il boss. Frank impiegò pochi secondi a trovare l’account di Liz nel super grande fulmineo computer e questa volta fu lui ad avere vertigini. La donna del portafogli era proprio lei, la fidanzata che nel 2008 aveva dovuto andarsene e lasciarlo per cercarsi un lavoro in quei tempi terribili. Nel file, nella cartella elettronica, c’era naturalmente il numero di telefono. «Miss, umm, ahh, ehh…», disse lui buttando lì quel “Miss”, signorina, nella speranza che la voce di donna all’altro capo non gli rispondesse con un “Mrs, per favore”. «Ahh, ehm, Miss Elizabeth Eccetera?». «Yes», disse lei, diffidente. «Il suo portafogli è stato ritrovato». Liz lanciò un gridolino di gioia, subito fermato: «E lei chi è?». «Sono Frank Eccetera…». Lunga pausa telefonica. «Frank?!?! Sei tu?». «Sì Liz, sono io. Ma come, ma come hai, ma tu, ma come…». Risate e pianti. Frank e Liz si diedero appuntamento per la consegna del portafogli in una caffetteria su Broadway. Lui e lei rimuginando lo stesso pensiero: che non fosse possibile una tale serie di coincidenze, che forse lei aveva fatto apposta… che forse lui aveva saputo che lei e allora… Lasciamoli ai loro dubbi, soli in quella caffetteria su Broadway. Quello che posso dire, perchè conosco Frank, è che hanno fissato il matrimonio per il giugno prossimo e senza bisogno di sassolini sull’anello perchè lei aveva sempre portato, e portava, quello che lui le aveva regalato al momento di chiederle di sposarlo. I tempi sono cambiati, le università sono tornate ad assumere, le supermegafinanziare sono più solide. Il boss umano. Non c’erano stati nessun diabolico piano, nessuna astuzia femminile tipo fazzolettino sfuggito alla damigella e nessun complotto maschile per seguirla a Madison Avenue. Soltanto il caso, la fortuna, il destino, la confusione. E la scoperta che, a volte, anche i portafogli hanno un cuore..

La grande fuga è finita: le ragazze salveranno Detroit

di Vittorio Zucconi

La sua immagine è l’equivalente industriale di un Inferno dantesco. Lasciate ogni speranza o voi che entrate a Detroit, che da dicembre è ufficialmente in amministrazione controllata per bancarotta. E ha perso, in trent’anni due terzi degli abitanti. Detroit e il suo sobborgo satellite ormai spento, la Flint di Michael Moore, sono il racconto dell’orrore post industriale, l’equivalente dei villaggi fantasma del West abbandonati quando la vena dell’oro, o le pepite nei ruscelli, scomparvero. Ma la storia che ancora nessuno racconta è come questa città dei dannati stia assistendo a qualcosa che nessuno aveva previsto: Detroit si sta ripopolando di donne. Dopo l’esodo dei maschi, scaricati da quelle case automobilistiche alle quali avevano dato la propria giovinezza, giovani donne single stanno inaspettatamente arrivando da città lontane richiamate dal passaparola. Sono giovani reporter che sbarcano nelle emittenti locali e prendono il controllo delle redazioni. «Noi ragazze con le minicamere, che non richiedono più la forza fisica di un maschione, non abbiamo niente da perdere qui a Detroit. Sfidiamo politicanti, banchieri, atleti, pezzi grossi dell’industria», racconta Angela della stazione WXYZ Abc. «E’come essere in guerra per un militare. Pericoloso, ma anche il modo più rapido per imparare a sopravvivere e fare carriera». Arrivano dottoresse fra i 30 e 40 anni, stanche di essere ingranaggi della catena di montaggio della medicina da polli in batteria. Kelly, ginecologa di Los Angeles, e Karisha, un’infermiera chirurgica licenziata da un ospedale fallito, hanno affittato per pochi dollari al mese – tutto a Detroit costa un quinto di quanto costerebbe a New York o a Los Angeles – un ex negozio di abbigliamento. Con i loro risparmi e qualche magro finanziamento bancario hanno acquistato attrezzature di base, ecografi, elettrocardiografi, lettini per visite, tavoli e strumenti per chirurgia ambulatoriale e con tariffe popolari visitano e operano. «Tutti noi medici sappiamo che la maggioranza dei test costosissimi sono ordinati soltanto per proteggere il medico, non il paziente, da cause per danni. Karisha e io non abbiamo niente, viviamo in affitto in un grande appartamento con vista sul lago per 500 dollari al mese, non abbiamo neppure un’assicurazione, proprio per non creare la tentazione di farci causa. Le nostre pazienti hanno bisogno di qualcuno che le ascolti, il più delle volte, e le nostre tariffe sono inferiori a quello che pagherebbero anche con l’assicurazione. Se sono patologie serie, ovviamente le mandiamo negli ospedali». Tornano avvocatesse che, dopo anni consumati nel tritacarne dei grandi studi legali per arricchire i titolari, vogliono avere una famiglia e fanno patrocinio di clienti che non possono permettersi i 1000 dollari all’ora degli studi celebri. Deena, Alisha e Liz sono tre giovani “profughe” da New York, come dicono scherzando, che hanno riscoperto «il piacere della legge e l’esistenza dei week end».Poi ci sono le artiste che vorrebbero far rivivere il mito della musica “Motown”, del Rythm ‘n’ Blues che a Detroit nacque, ma ancora di più sono le DJ. Nei non molti club ancora aperti, sono più femmine che maschi a dettare il tempo. «Qui hanno molte meno pretese, i gestori come i clienti. Noi impariamo, sperimentiamo, affiniamo la nostra tecnica, senza l’incubo della concorrenza da tagliagole che c’è altrove». La città dei fantasmi si sta popolando di corpi vivi di donne giovani ed è quella con la minor percentuale di abitanti oltre i 55 anni. Il grosso dei residenti sta fra i 25 e 45 anni e le femmine sono il 65% di loro. Come nelle sequenze delle città dopo le guerre nelle quali si vedono soprattutto donne tra le rovine, così nella Detroit devastata dalla agonia dei motori si vedono loro, dottoresse e DJ, bariste e avvocatesse, giornaliste e poliziotte muoversi, con prudenza e speranza nelle macerie, conoscendo i rischi, conoscendo i vantaggi. E dove ci sono donne giovani, ci saranno bambini, dove ci saranno bambini ci saranno adulti, dove c’era soltanto disperazione ci sarà forse speranza, perchè anche questo è l’America, dove ogni disastro – e Detroit è un disastro – diventa un’occasione per ricominciare.

L’apocalisse? Anche oggi può attendere. Lo fa da secoli

di Vittorio Zucconi

Negli USA la nazione che ha inventato quella falsa scienza chiamata “futurologia”, non molto più attendibile dei tarocchi, dell’astrologia e dell’economia, gli esperti, che sono semplicemente coloro che sbagliano ogni previsione, ma sanno poi spiegarvi il perché, imperversano. L’unica difesa – o vendetta – che noi inesperti possiamo permetterci è andare a vedere nel passato quanti, colossali granchi i sapienti abbiano preso. Se dunque in questi primi giorni del 2014 l’amico saccente, l’amica petulante vi affliggeranno con le loro profezie (quasi sempre catastrofiche, essendo l’apocalisse oggi molto di moda) offrite loro questo piccolo campionario di storiche, sensazionali “toppate”. Partiamo. «Passeranno anni prima che una donna diventi Primo Ministro e certamente non avverrà durante la mia vita». Margaret Thatcher, 1969. Sarà Premier per undici anni, dal 1979 al 1990. «Le donne intelligenti e di buon senso non avranno mai alcun desiderio di votare». 1905, Grover Cleveland, Presidente degli Stati Uniti. «Il rock ‘n’ roll tramonterà entro l’anno». 1956,Variety, il più autorevole periodico di musica e spettacolo. «L’avvento del telegrafo senza fili renderà impossibili le guerre». 1912, Guglielmo Marconi sul Technical World. «Il cosiddetto telefono ha troppe complicazioni perché possa mai essere uno strumento pratico». 187,William Orton, presidente della Western Union. «Siamo stati i primi e sicuramente saremo gli ultimi a vedere questo luogo desolato e senza possibilità economiche». 1861, Joseph Ives, esploratore americano, dopo avere visto il Grand Canyon. Cinque milioni di persone all’anno oggi lo visitano. «Nessun razzo potrà mai sfuggire alla forza di gravità della Terra» New York Times, 1936, quarant’anni prima del lancio in orbita dello Sputnik russo. «Nel mondo ci può essere mercato per al massimo quattro o cinque computer». 1943, Tom Watson, presidente della IBM. «La gente si stancherà in fretta di guardare un piccolo schermo dentro una scatola di legno». 1946, Darryl Zanuck, boss della 20th Century Fox, dopo avere visto un televisore. «Aspirapolveri a energia atomica saranno prodotti e venduti entro dieci anni». 1955, Alex Lewyt, presidente della Lewyt Aspirapolveri. La sua società fallirà poco dopo la predizione. «Il cavallo ci sarà per sempre e l’automobile è una curiosità passeggera». 1903, il presidente di una banca del Michigan, rifiutando un prestito a Henry Ford per aprire la sua prima carrozzeria. «Il cinema è poco più di una moda, la gente non vuole drammi in scatola, ma il sangue e la vita vera degli attori sul palcoscenico». 1916, Charlie Chaplin. «Wall Street ha raggiunto ormai un livello di stabilità permanente». 1929, Irving Fisher, economista, cinque giorni prima del più grande crack nella storia della Borsa americana. «I Beatles non hanno futuro». 1962, il presidente della Decca Records al manager dei quattro ragazzi, rifiutando un contratto. «Gli acquisti e il commercio in Rete, seppure tecnicamente possibili, non funzioneranno mai, perchè le donne vogliono vedere e toccare con mano quello che comprano». 1968, Time magazine. In questo fine 2013, gli acquisti online hanno sfiorato i 300 miliardi di dollari soltanto negli Usa. «Non c’è nessuna possibilità che l’iPhone possa avere successo». 2007, Steve Ballmer, presidente di Microsoft. E se questa straziante crisi italiana sembra, come tutte le crisi che l’hanno preceduta nella storia dell’umanità, annunciare la fine del mondo e il crollo del cielo, si può sempre rimettere l’orologio indietro di qualche anno e tornare al dicembre del 1999, per rileggere quanto scrisse il direttore dell’importantissima rivista specializzata in computer e informatica Byte, un uomo dal nome preoccupante di Edmund Jesus: «L’anno 2000 sarà una catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità. Niente sarà più come prima». Siamo già nel 2014. Buon anno.

Cara amica ti scrivo, ma non so più come si fa

di Vittorio Zucconi

Ho scoperto di non saper più scrivere. E forse è una scoperta che avete fatto anche voi. Non mi riferisco alla scrittura come alla mia professione, ad articoli, post in Internet, libri, rubriche, che a fatica riesco ancora a fare anche se gli occasionali lettori di questa pagine potrebbero dissentire. Non so più scrivere lettere, biglietti, dediche a mano oltre il “con simpatia”, “auguri”, “grazie” e la richiesta familiare di scriverli, quasi sempre preceduta dal “fallo tu che dovresti essere lo scrittore di casa”, mi paralizza. Datemi la tastiera di un computer e, come dolorsamente sanno i miei colleghi di “Repubblica” e di “D” costretti a comprimere e tagliare le mie sterminate composizioni, posso scrivere all’infinito. Datemi un foglio di carta e una biro e il micidiale blocco dello scrittore mi assale. Stiamo, tutti, disimparando a scrivere. Se non sono appunti frettolosi appiccicati con la calamita al frigorifero, del genere letterario tipo “la minestra è nel microonde” o “sono dal dentista”, non scriviamo quasi più nulla a mano. E dunque non spediamo, e non riceviamo, lettere. «Poco dopo avere cominciato una relazione con un uomo, ci dovemmo separare per qualche tempo e provai il desiderio di scrivergli – scrive Lisa Bono, critica letteraria del Washington Post – ma mi sono bloccata. Un sms mi sembrava ridicolmente offensivo, da ragazzina. Una e-mail troppo brutale e impersonale. Una lettera mandata per posta mi metteva ansia: come sarebbero suonate le mia parole recapitate dopo vari giorni, meno spontanee, troppo artificiose e ricercate? Come sarebbe stata letta un anno o dieci anni dopo?». Il risultato, racconta Lisa che ha recensito un delizioso libro sul tramonto della corrispondenza postale, fu che non gli scrisse. Lui, da bravo maschio suscettibile e vanitoso, si offese, si pensò dimenticato e la storia d’amore finì nel silenzio. Quando è stata l’ultima volta che il postino vi ha recapitato un lettera scritta a mano, una busta che non contenesse un catalogo di ferramenta, una fattura, una bolletta, una brochure? Mesi? Anni? Da quanto tempo non ne scrivete e imbucate una? Il Servizio Postale americano non distingue, non può farlo, tra una missiva d’amore e la comunicazione della banca che vi sollecita un pagamento. Ma anche sommando tutta la corrispondenza cosiddetta di “prima classe”, dunque non ciarpame promozionale, abbonamenti, pacchi, il volume di lettere consegnate è crollato negli anni. Oggi sono recapitate 30 miliardi di lettere all’anno in meno rispetto a 20 anni or sono, soltanto negli Stati Uniti. 30 miliardi. Ho cassetti e portapenne pieni di magnifiche stilografiche a inchiostro che compro nella speranza che quel pennino d’oro, quelle cartucce o calamai gonfi di deliziosi colori mi seducano e mi convincano a scrivere una lettera. Riposano tutte, defunte nelle incrostazioni che richiederebbero pazienti pulizie. Oscar Wilde, che aveva la fobia per francobolli e servizi postali, almeno le scriveva, non disponendo di PC o tablet. Le buttava dalla finestra della sua casa di Chelsea, a Londra, nella speranza che un passante le raccogliesse e le inoltrasse per lui. La rovente corrispondenza amorosa fra Anaìs Nin e Henry Miller sarebbe inimmaginabile se fosse stata condotta via posta elettronica o Facebook, “mi piace/non mi piace”. La anonimità dei caratteri dei programmi di scrittura, la perfetta freddezza delle stampanti non potranno mai restituire i tremori e le esitazioni della penna sulla carta, il calore della mano che tracciava le parole. Sentimentalismi, naturalmente. Ai bambini delle elementari, almeno qui nell’Hotel America, non si insegna più la calligrafia oltre al minimo indispensabile per scarabocchiare geroglifici e segni cuneiformi. Non gli servirà, dicono. E se a volte si abusava del servizio postale, come nel 1914 quando i genitori di una bambina di quattro anni, Charlotte May Pierstoff, la spedirono ai nonni (da allora è illegale inviare per posta esseri umani), la nostalgia delle lettere che mia moglie mi scrisse da un suo viaggio in Cina, mi ritorna. Come a lei torna il ricordo delle lettere d’amore che le scrivevo da ragazzo. Andarono perdute in uno dei nostri tanti traslochi. Per fortuna.

L’invasione dei bambini in amore e lo spirito del West

di Vittorio Zucconi

Piansi come soltanto un bambino può piangere, la testa sprofondata nel grembo di mia madre, fino a costringerla a uscire dal cinema Nazionale di Piazza Piemonte, a Milano. Il cattivo cacciatore aveva trafitto e ucciso la mamma di Bambi e il fatto che nella Milano del dopoguerra scarseggiassero i cervi e i cacciatori, e il rischio per mia madre di essere trapassata da un freccia fosse molto ridotto, non mi impedì di identificarmi con l’orfano a quattro zampe. Qualche decennio più tardi, Bambi è tornato nella mia vita. Ce l’ho in casa. Non dentro casa, perché i cervi diffondono odori non proprio gradevoli per noi umani nei mesi degli amori, ma ovunque, intorno, ci sia uno straccio di boschetto, un lembo di prato, un giardino grande. Anche davanti alla cassetta della posta. Siamo invasi dai cervi, che ci ripagano della stessa moneta, avendo noi umani invaso la loro casa. Abito a un quarto d’ora dalla Casa Bianca, dalla Federal Reserve, dalla Cia e dal Dipartimento di Stato, dunque nel pieno della urbanizzazione. Eppure in autunno, quando i maschi avvertono l’estro delle femmine e perdono testa e corna, e poi in primavera, quando zampettano i Bambi ancora con il pelo chiazzato di bianco, i “Cervi dalla Coda Bianca” originari proprio di questa terra, Odocoileus virginianus, della Virginia appunto, spuntano ovunque. Me ne sono trovati davanti a casa, a brucare cespuglietti ed erba. In mezzo alla strada, in autostrada, ovunque, perché questa magnifiche creature sono state costrette a perdere il timore dell’uomo. Sei gravi incidenti al giorno, e soprattutto alla notte, quando restano immobili e terrorizzati nella luce dei fari abbaglianti in mezzo alla strada, sono registrati nella zona di Washington e dei sobborghi, in Virginia e nel Maryland. Andare a sbattere contro un maschio di due quintali dalle grandi corna produce effetti disastrosi per tutti. La risposta degli uomini era prevedibile: ammazzarli. Comitati di quartiere, agricoltori, forze di polizia si stanno mobilitando e coalizzando per organizzare battute di caccia e decimare le famiglie di cervi, in inverno, quando le femmine sono gravide. Associazioni di animalisti cercano di fermarli e di contromobilitarsi, chiedendo soluzioni più umane al problema della proliferazione di Bambi e delle sue famiglie, come catturare femmine giovani per sterilizzarle chirurgicamente. Ma le procedure di cattura e di intervento chirurgico sono complesse e costose e questi non sono tempi di grande generosità. Non ci sarebbero mai abbastanza veterinari. Si formano invece squadre di killer specializzati, armati di fucili di alta precisione, che almeno garantiscono che l’animale colpito muoia immediatamente. Non mancano nemmeo arcieri e balestrieri che preferiscono antichi metodi per abbatterli. Nell’abbondanza di armi di ogni tipo nelle case americane, i volontari che si offrono per queste battute di caccia abbondano e comuni, contee, sceriffi devono faticare per limitare l’entusiasmo dei deer hunter, i cacciatori di cervi. Il numero di questi animali cresce in maniera ormai incontrollata. Nei sobborghi delle grandi città, e ormai anche nei parchi pubblici urbani, da un anno all’altro le famiglie dei cervi aumentano visibilmente. Parchi pubblici che potrebbero sostenere la vita di dieci cervi, ne contano più di 50 e la mancanza dei loro nemici naturali, orsi, lupi, grandi felini, insieme con l’abbondanza di cibo, li moltiplica. Negli anni Venti dello scorso secolo, quando la caccia era libera e i cervi erano parte dell’alimentazione nei territori ancora non urbanizzati, il loro numero si era ridotto a 300 mila. Oggi, negli Stati Uniti, hanno superato i 30 milioni. Siamo troppi noi, sono troppi loro, ma noi abbiamo il fucile, loro no. Come le alci che infestano il West, come i lupi grigi che sono stati reintrodotti negli stati della Frontiera e si stanno moltiplicando grazie all’abbondanza di mucche e buoi, molto più facili da attaccare e divorare dei bisonti, così anche i “Coda Bianca” sono destinati a perdere la battaglia contro il massimo predatore. Ma questa volta cercherò di non piangere.

Anche gli assassini dei presidenti hanno una mamma

di Vittorio Zucconi

Prima che la nebbia ricada misericordiosamente sull’assassinio di John F Kennedy per altri 50 anni e ora che la tempesta dell’anniversario ha finito di imperversare, c’è ancora una piccola appendice che vi vorrei raccontare, se non vi par troppo. La storia di una donna senza la quale nulla di ciò che accadde sarebbe accaduto.
La storia comincia alle due del pomeriggio, ora del Texas, nella redazione del quotidiano di Fort Worth, lo Star. Fort Worth è la città gemella di Dallas alla quale è attaccata. Non sono trascorse neppure due ore dalle fucilate contro il Presidente e nell’infernale confusione del giornale tutti i telefoni squillano.
Un giovane cronista destinato a diventare famoso giornalista televisivo in America, Bob Schieffer, alza una cornetta. Una voce di donna all’altro capo gli dice: «Mi servirebbe una macchina per andare a Dallas». Signora, le risponde Schieffer irritato, questo non è mica un servizio di taxi, è un giornale. «Appunto per questo ho telefonato a voi – ribatte calma la donna – perchè sono la madre di quello che hanno arrestato per l’omicidio del Presidente. Il mio nome è Marguerite Claverie. Sono la madre di Lee Harvey Oswald». Un’ora più tardi, Marguerite Claverie in Oswald era in auto con due giornalisti increduli.
Allora cinquantaquatrenne e con tre matrimoni falliti alle spalle, Marguerite parla ininterrottamente, ma non del figlio, di se stessa. Dice di essere preoccupata per il suo futuro, per quello che sarà di lei. Domanda se giornali e tv sarebbero disposti a pagarla per intervistarla, se ci saranno editori pronti a pubblicare la storia della sua vita, se le cose appartenute a Lee da bambino e da ragazzo potrebbero avere un valore come “souvenir”.
Ma… ma… signora, balbetta Schieffer, forse non ha capito che suo figlio è accusato di avere ucciso il Presidente degli Stati Uniti. «Certo che l’ho capito – risponde lei – altrimenti perchè sarei qui in macchina con voi giornalisti». «Allora non osai scriverlo nel mio servizio, si rimprovera oggi, 50 anni dopo, Bob Schieffer, uno dei più seri e rispettati “anchor” della tv americana, ma avrei dovuto dire subito che la madre di Oswald era chiaramente una squilibrata».
Marguerite Claverie Oswald, nata a New Orleans figlia di un immigrato francese, campava facendo quello ora si direbbe la badante, ma da quel giorno nessuno le diede più alcun lavoro. Nello stesso, piccolo bungalow di Fort Worth, a poche miglia da quella piazza dove suo figlio aveva sparato tre colpi di fucile contro John Kennedy, avrebbe vissuto facendosi pagare dai rari turisti del macabro che si ricordavano di lei, per condurli in una visita alla stanza dove Lee Harvey era cresciuto. Vendeva, come aveva promesso, foto, indumenti, oggetti appartenuti al figlio. E periodicamente riceveva misteriosi, piccoli assegni in dollari, da ignoti ammiratori.
A tutti ripeterà per quasi vent’anni la certezza che il suo bambino fosse innocente e che a uccidere JFK fossero stati – la versione cambiava negli anni – il vice presidente Johnson, la Cia, l’Fbi, la Mafia, Richard Nixon, i cubani. «Accusarono lui soltanto perchè era comunista».
Ma l’oggetto bruciante del suo odio era è «quella donnaccia», quella «puttana”, come diceva lei: Jacqueline Kennedy. Quando un inviato della BBC la intervistà per il decimo anniversario nel 1973, volle farsi riprendere all’aperto con un foulard di seta in testa stretto con un nodino sotto il mento e gli occhialoni da sole, come li portava Jackie, «per far credere ai vicini che io sia lei». Evento improbabile, visto il fisico robusto e tozzo della signora.
Aveva altri due figli maschi, fratelli di Lee Harvey Oswald avuti da diversi mariti, ma nessuno di loro, dopo quel giorno di novembre 1963, le telefonò più.
Morì sola, nel sonno, nel 1981, nella casetta davanti alla quale i due giornalisti l’avevano caricata per portarla alla centrale di polizia di Dallas a incontrare il figlio per l’ultima volta, prima che anche lui fosse ucciso.
E’ sepolta allo Shannon Rose Hill Park, un cimitero di Fort Worth. Accanto alla tomba del figlio che lei, in questo mamma perfettamente normale, credeva innocente.

Michelle, ti prego smettila di chiedermi dei soldi

di Vittorio Zucconi

Mi guardano con occhi disperati, sopra ventri gonfiati dalla fame. Mi strappano il cuore nel pallore del male che combattono. Mi tendono la mano scarnificata sotto scialli logori. Hanno bisogno di me, del mio aiuto e mi chiedono di giocare a Dio: chi devo scegliere? Chi devo aiutare? Chi ignorare? Questa è la stagione dello straziante ricatto della filantropia, che si fa travolgente nell’avvicinarsi del Natale e il mio nome è ormai risucchiato nel grande vortice della beneficenza.
Tutto era cominciato in maniera banale, con pochi dollari. Arriva un’ambulanza in casa, per soccorrere una persona caduta e ferita. Sono volontari di una squadra di soccorso di quartiere. Non vogliono nulla ma se non sei un verme, un arpagone o un poveraccio senza un centesimo, mandi un contributo alla loro attività . Inviai 100 dollari alla Chevy-Chase Bethesda Rescue Squad, come si chiamava. Mi arrivò la lettera di ringraziamento con l’avvertenza che quei 100 dollari erano detraibili dalle tasse. Buon cuore e buon affare.
Non sapevo, come disse l’ammiraglio Yamamoto nel 1941 dopo avere bombardato Pearl Harbor, che avrei svegliato un gigante che dormiva. Il mio nome era finito dentro il tenero, implacabile, insaziabile colosso delle “donations”, passato e rivenduto, frullato dalle banche dati. È tutto a fin di Bene e il Bene è implacabile, non conosce pentimenti.
Sono ormai nell’immenso corpo dei finanziamenti volontari caritatevoli, che negli USA pesa 300 miliardi di dollari l’anno e supplisce al gracilissimo, anoressico corpicino dell’assistenza pubblica. Mi mandano appelli dozzine di questi enti caritatevoli. Sulla scrivania ho richieste dell’Unicef (il braccio dell’ONU che si occupa di bambini), Medici Senza Frontiere, Emergency, la Società per la lotta alla Fibrosi Cistica, la Croce Rossa, la Associazione degli Orfani dei Poliziotti, la Marcia dei Dimes per i bambini ancora non nati, la Fondazione per la Fauna dell’Alaska (Alaska?), l’Ospedale Pediatrico di San Giuda, la Fratellanza dei Bambini Ciechi, la Fondazione per la Prevenzione dei Suicidi, la Società per la Lotta all’Artrite e tutti i gruppi che lottano contro i tumori della mammella.
Sono un milione mezzo le organizzazioni caritatevoli non profit negli Stati Uniti e quando si avvicina il Natale, il tempo del rimorso per i soldi buttati, si mobilitano in massa. La mia cassetta della posta trabocca di appelli, ai quali si aggiungono le richieste di elemosine politiche a partiti e candidati vari, da quando mia moglie versò incautamente 50 dollari alla campagna elettorale di Obama nel 2008 . Da allora ricevo appassionate lettere della First Lady Michelle: perchè non ho più tue notizie, dear Vittorio?
Chi scegliere? E’ meglio, cioè è peggio, l’Aids o la Croce Rossa, Medici Senza Frontiere o le ambulanze volontarie del quartiere? Devo commuovermi più per i bambini autistici o diabetici? Stacco assegni per la lotta al tumore della mammella o per la vaccinazione dei figli di immigranti illegali? Quale tragedia del giorno è più tragica, le Filippine o il tornado che ha divorato la Prateria, i monsoni nel Sud Est Asiatico o l’ultimo terremoto killer (ce n’è sempre uno)?
Si deve scegliere. A chi molto è stato dato dalla vita, come a me, molto è richiesto, ma neppure i Rockefeller o i Gates possono contribuire a tutto. Quale degli occhioni sgranati che mi guardano dalla foto è più commovente? Il rischio è quello di premiare il fotografo più bravo, anzichè il bambino più malato.
Ti chiedono di giocare a Dio, al Signore della Misericordia con bonifico, assegno o carta di credito (negli Usa ci viene almeno risparmiata la filantropia della pigrizia via SMS). Con il cuore trafitto, butto fasci di appelli nel cassonetto della carta. Mi aggrappo al Bene generico, per non dover pronunciare sentenze di vita o di morte specifiche, stacco assegni per l’Unicef, per Medici Senza Frontiere, per Emergency, per la Croce Rossa. Si preoccupino loro di scegliere poi chi aiutare.
Getto invece senza rimorsi tutte le richieste di donazioni a partiti e politici, sperando che almeno loro la piantino di tormentarmi. Non ne posso più  di ricevere lettere strazianti da Michelle Obama.

L’irresistibile richiamo delle sirene

di Vittorio Zucconi

Accasciata sul pavimento della sua casa di Trinidad, che non è  in questo caso un’isola delle Antille ma un quartiere di Washington, Martha Rigsby riuscì a chiamare con il telefonino il 911, il centralino per le emergenze. Quando il suo numero apparve sul monitor della centrale, l’operatrice fece un respiro profondo, roteò gli occhi e con tutta la professionalità di cui era capace rispose: «Martha, ora ti mando un’auto della polizia e ti faccio sbattere in galera».
Una risposta del genere, registrata come tutte le chiamate al 911, avrebbe provocato il licenziamento istantaneo della centralista, ma non nel caso di Martha Rigsby. Quella sua richiesta di soccorso, arrivata il 4 novembre scorso poco prima di mezzanotte, era la sua duecentoventiseiesima del 2013. Per 226 volte in dieci mesi, quasi una volta al giorno, la signora aveva chiamato il numero dell’emergenza e per 117 volte era riuscita a farsi trasportare in ospedale. Senza che i medici siano mai riusciti a trovare una causa che spieghi i suoi svenimenti, deliqui, collassi.
Non l’hanno mai trovata perchè non c’è e a questo punto, se ci fosse, l’avrebbero trovata. Martha è  la donna più analizzata, testata, auscultata, radiografata, scannerizzata, magnetizzata e sforacchiata se non d’America, certamente della capitale americana da quando, trent’anni or sono, crollò su un marciapiedi e fece la sua prima corsa a sirene ululanti verso l’ospedale. Un’esperienza che le dovette piacere molto, perchè al ritmo di centinaia di chiamate d’emergenza all’anno verso i Pronto Soccorso, che per legge sono obbligati ad accettare chiunque e gratuitamente, i suoi viaggi sulle ambulanze di Washington oltrepassano i tremila.
Martha Rigsby è una di quelli che i servizi di soccorso chiamano i “serial caller”, coloro che a ripetizione chiamano il centralino delle emergenze senza veri motivi. «Se ci fosse una carta fedeltà con punti come esiste per chi vola molto – dice il dottor David Miramontes, direttore dei servizi medici di emergenza nella capitale americana – Martha dopo 30 anni potrebbe comperarsi un’ambulanza». E non è una battuta cinica: in tre decenni, il conto totale per quei trasporti sfiora i 100 mila dollari, il costo di un’autolettiga.
Hanno provato a prenderla per stanchezza, facendola aspettare per giornate intere nei Pronto Soccorso, dove ormai è di famiglia. Ma lei non ha niente altro da fare. L’hanno arrestata per spaventarla, ma in 30 anni Martha ha capito che sono minacce a vuoto. Il 911 non può negare interventi a nessuno, e dunque neppure a lei. A San Francisco, dove i “serial caller” sono più numerosi, chissà perchè, che altrove, il responsabile dell’invio dei soccorsi rischiò il carcere quando rifiutò di rispondere alla settantesima chiamata di uomo nello stesso mese. Fu trovato il giorno dopo ucciso da un infarto.
La signora Rigsby, che vive sola nella propria casetta e ha una pensione di invalidità di 1.500 dollari al mese dopo 30 anni di lavoro al Ministero dell’Istruzione è stata esaminata da psichiatri nominati dai tribunali, ma le sue condizioni mentali sono sempre risultate nei parametri della norma. Neppure i periti sanno dare spiegazioni coerenti e accettabili a questi comportamenti. Solitudine, forse. Bisogno di sentirsi al centro dell’attenzione e del trambusto che in ogni quartiere l’arrivo di un’ambulanza con i lampi di luce multicolore e lo strepito delle sirene scatena. Attacchi d’ansia e di panico. Incapacità di riconoscere le proprie condizioni, che la portano a sentirsi in fin di vita a ogni turbamento. Ma non si può chiedere a una signora sessantaseienne di farsi un’autodiagnosi.
Nessuna città, tormentata da questi “serial caller” che sottraggono risorse a interventi di autentica emergenza, ha trovato una soluzione. I responsabili del 911 a Washington hanno tentato, dopo la 226esima chiamata, di costringere Martha Rigsby ad accettare un’assistente 24 ore su 24, che il Comune avrebbe pagato, per ordine del giudice.
L’udienza in Tribunale si è tenuta il sei novembre scorso. Appena il magistrato ha battuto il martelletto per aprire il dibattito, Martha Rigsby è prontamente svenuta. Il giudice ha dovuto chiamare un’ambulanza.

L’irresistibile richiamo delle sirene

di Vittorio Zucconi

Accasciata sul pavimento della sua casa di Trinidad, che non è  in questo caso un’isola delle Antille ma un quartiere di Washington, Martha Rigsby riuscì a chiamare con il telefonino il 911, il centralino per le emergenze. Quando il suo numero apparve sul monitor della centrale, l’operatrice fece un respiro profondo, roteò gli occhi e con tutta la professionalità di cui era capace rispose: «Martha, ora ti mando un’auto della polizia e ti faccio sbattere in galera».
Una risposta del genere, registrata come tutte le chiamate al 911, avrebbe provocato il licenziamento istantaneo della centralista, ma non nel caso di Martha Rigsby. Quella sua richiesta di soccorso, arrivata il 4 novembre scorso poco prima di mezzanotte, era la sua duecentoventiseiesima del 2013. Per 226 volte in dieci mesi, quasi una volta al giorno, la signora aveva chiamato il numero dell’emergenza e per 117 volte era riuscita a farsi trasportare in ospedale. Senza che i medici siano mai riusciti a trovare una causa che spieghi i suoi svenimenti, deliqui, collassi.
Non l’hanno mai trovata perchè non c’è e a questo punto, se ci fosse, l’avrebbero trovata. Martha è  la donna più analizzata, testata, auscultata, radiografata, scannerizzata, magnetizzata e sforacchiata se non d’America, certamente della capitale americana da quando, trent’anni or sono, crollò su un marciapiedi e fece la sua prima corsa a sirene ululanti verso l’ospedale. Un’esperienza che le dovette piacere molto, perchè al ritmo di centinaia di chiamate d’emergenza all’anno verso i Pronto Soccorso, che per legge sono obbligati ad accettare chiunque e gratuitamente, i suoi viaggi sulle ambulanze di Washington oltrepassano i tremila.
Martha Rigsby è una di quelli che i servizi di soccorso chiamano i “serial caller”, coloro che a ripetizione chiamano il centralino delle emergenze senza veri motivi. «Se ci fosse una carta fedeltà con punti come esiste per chi vola molto – dice il dottor David Miramontes, direttore dei servizi medici di emergenza nella capitale americana – Martha dopo 30 anni potrebbe comperarsi un’ambulanza». E non è una battuta cinica: in tre decenni, il conto totale per quei trasporti sfiora i 100 mila dollari, il costo di un’autolettiga.
Hanno provato a prenderla per stanchezza, facendola aspettare per giornate intere nei Pronto Soccorso, dove ormai è di famiglia. Ma lei non ha niente altro da fare. L’hanno arrestata per spaventarla, ma in 30 anni Martha ha capito che sono minacce a vuoto. Il 911 non può negare interventi a nessuno, e dunque neppure a lei. A San Francisco, dove i “serial caller” sono più numerosi, chissà perchè, che altrove, il responsabile dell’invio dei soccorsi rischiò il carcere quando rifiutò di rispondere alla settantesima chiamata di uomo nello stesso mese. Fu trovato il giorno dopo ucciso da un infarto.
La signora Rigsby, che vive sola nella propria casetta e ha una pensione di invalidità di 1.500 dollari al mese dopo 30 anni di lavoro al Ministero dell’Istruzione è stata esaminata da psichiatri nominati dai tribunali, ma le sue condizioni mentali sono sempre risultate nei parametri della norma. Neppure i periti sanno dare spiegazioni coerenti e accettabili a questi comportamenti. Solitudine, forse. Bisogno di sentirsi al centro dell’attenzione e del trambusto che in ogni quartiere l’arrivo di un’ambulanza con i lampi di luce multicolore e lo strepito delle sirene scatena. Attacchi d’ansia e di panico. Incapacità di riconoscere le proprie condizioni, che la portano a sentirsi in fin di vita a ogni turbamento. Ma non si può chiedere a una signora sessantaseienne di farsi un’autodiagnosi.
Nessuna città, tormentata da questi “serial caller” che sottraggono risorse a interventi di autentica emergenza, ha trovato una soluzione. I responsabili del 911 a Washington hanno tentato, dopo la 226esima chiamata, di costringere Martha Rigsby ad accettare un’assistente 24 ore su 24, che il Comune avrebbe pagato, per ordine del giudice.
L’udienza in Tribunale si è tenuta il sei novembre scorso. Appena il magistrato ha battuto il martelletto per aprire il dibattito, Martha Rigsby è prontamente svenuta. Il giudice ha dovuto chiamare un’ambulanza.

L’irresistibile richiamo delle sirene

di Vittorio Zucconi

Accasciata sul pavimento della sua casa di Trinidad, che non è  in questo caso un’isola delle Antille ma un quartiere di Washington, Martha Rigsby riuscì a chiamare con il telefonino il 911, il centralino per le emergenze. Quando il suo numero apparve sul monitor della centrale, l’operatrice fece un respiro profondo, roteò gli occhi e con tutta la professionalità di cui era capace rispose: «Martha, ora ti mando un’auto della polizia e ti faccio sbattere in galera».
Una risposta del genere, registrata come tutte le chiamate al 911, avrebbe provocato il licenziamento istantaneo della centralista, ma non nel caso di Martha Rigsby. Quella sua richiesta di soccorso, arrivata il 4 novembre scorso poco prima di mezzanotte, era la sua duecentoventiseiesima del 2013. Per 226 volte in dieci mesi, quasi una volta al giorno, la signora aveva chiamato il numero dell’emergenza e per 117 volte era riuscita a farsi trasportare in ospedale. Senza che i medici siano mai riusciti a trovare una causa che spieghi i suoi svenimenti, deliqui, collassi.
Non l’hanno mai trovata perchè non c’è e a questo punto, se ci fosse, l’avrebbero trovata. Martha è  la donna più analizzata, testata, auscultata, radiografata, scannerizzata, magnetizzata e sforacchiata se non d’America, certamente della capitale americana da quando, trent’anni or sono, crollò su un marciapiedi e fece la sua prima corsa a sirene ululanti verso l’ospedale. Un’esperienza che le dovette piacere molto, perchè al ritmo di centinaia di chiamate d’emergenza all’anno verso i Pronto Soccorso, che per legge sono obbligati ad accettare chiunque e gratuitamente, i suoi viaggi sulle ambulanze di Washington oltrepassano i tremila.
Martha Rigsby è una di quelli che i servizi di soccorso chiamano i “serial caller”, coloro che a ripetizione chiamano il centralino delle emergenze senza veri motivi. «Se ci fosse una carta fedeltà con punti come esiste per chi vola molto – dice il dottor David Miramontes, direttore dei servizi medici di emergenza nella capitale americana – Martha dopo 30 anni potrebbe comperarsi un’ambulanza». E non è una battuta cinica: in tre decenni, il conto totale per quei trasporti sfiora i 100 mila dollari, il costo di un’autolettiga.
Hanno provato a prenderla per stanchezza, facendola aspettare per giornate intere nei Pronto Soccorso, dove ormai è di famiglia. Ma lei non ha niente altro da fare. L’hanno arrestata per spaventarla, ma in 30 anni Martha ha capito che sono minacce a vuoto. Il 911 non può negare interventi a nessuno, e dunque neppure a lei. A San Francisco, dove i “serial caller” sono più numerosi, chissà perchè, che altrove, il responsabile dell’invio dei soccorsi rischiò il carcere quando rifiutò di rispondere alla settantesima chiamata di uomo nello stesso mese. Fu trovato il giorno dopo ucciso da un infarto.
La signora Rigsby, che vive sola nella propria casetta e ha una pensione di invalidità di 1.500 dollari al mese dopo 30 anni di lavoro al Ministero dell’Istruzione è stata esaminata da psichiatri nominati dai tribunali, ma le sue condizioni mentali sono sempre risultate nei parametri della norma. Neppure i periti sanno dare spiegazioni coerenti e accettabili a questi comportamenti. Solitudine, forse. Bisogno di sentirsi al centro dell’attenzione e del trambusto che in ogni quartiere l’arrivo di un’ambulanza con i lampi di luce multicolore e lo strepito delle sirene scatena. Attacchi d’ansia e di panico. Incapacità di riconoscere le proprie condizioni, che la portano a sentirsi in fin di vita a ogni turbamento. Ma non si può chiedere a una signora sessantaseienne di farsi un’autodiagnosi.
Nessuna città, tormentata da questi “serial caller” che sottraggono risorse a interventi di autentica emergenza, ha trovato una soluzione. I responsabili del 911 a Washington hanno tentato, dopo la 226esima chiamata, di costringere Martha Rigsby ad accettare un’assistente 24 ore su 24, che il Comune avrebbe pagato, per ordine del giudice.
L’udienza in Tribunale si è tenuta il sei novembre scorso. Appena il magistrato ha battuto il martelletto per aprire il dibattito, Martha Rigsby è prontamente svenuta. Il giudice ha dovuto chiamare un’ambulanza.

Per far carriera in America bisogna spaccare il minuto

di Vittorio Zucconi

La “deadline”, la scadenza per la consegna della tesi, era la mezzanotte, l’ora fatale per Cenerentola, la carrozza, i topi e gli studenti. Come tutti gli ex scolari negligenti, gli ex fumatori o gli ex alcolisti, quelli che dopo la conversione si trasformano negli implacabili persecutori dei vizi che un tempo avevano, anche io, sotto la mia immaginaria toga di professore universitario nel Middlebury College del Vermont, ero inflessibile. Quattordici studenti sui quindici della mia classe rispettarono la scadenza. Tutti, tranne uno, che spedì la tesi il mattino dopo.
Era l’unico studente italiano. Senza neppure leggere il suo lavoro, lo respinsi. «La tua tesi è comunque sbagliata – gli spiegai prima che azzannasse quel carognone del professore – perchè non hai capito che se vuoi vivere e lavorare qui negli Stati Uniti devi imparare che la puntualità non è un optional, che arrivare in ritardo per un’intervista di lavoro o un incontro con un cliente ti distruggerà».
Il culto americano della puntualità è qualcosa che viene trapanato nei bambini fino dalle prime poppate e si fa via via più stringente. Il «passo a prenderti alle sette» che sentiamo ripetere nei film e telefilm significa che anche la “lei”, al primo appuntamento, deve farsi trovare pronta alle sette, pur coi capelli grondanti. Ai bambini di nove anni che giocano a football con uno dei miei nipotini ho visto infliggere venti piegamenti e due giri di pista attorno al campo per essere arrivati all’allenamento previsto per le cinque del pomeriggio alle cinque in punto. Perchè se si deve cominciare alle cinque, si deve essere già pronti e schierati, alle cinque. Gli americani possono anche perdere le guerre o non sapere come finirle, ma si può essere certi che le cominceranno in tempo.
L’antica tolleranza nei confronti delle donne, sopportate nei loro cronici ritardi come parte delle malizie e dello charme femminili, è stata spazzata via dall’ingresso nel lavoro, dove la riunione, il cartellino, l’apertura del negozio, non concedono sconti di genere. Le ricerche delle grandi aziende dimostrano che le dipendenti sono più puntuali dei loro colleghi maschi, anche a costo di rischiare la vita in auto verso l’ufficio, ritoccandosi le labbra con il rossetto in un mano mentre l’altra regge il bidoncino del caffè e le ginocchia controllano il volante. Il 75 per cento dei ritardatari sono maschi.
La “tardiness”, l’essere in ritardo cronico, è la prima causa di licenziamento. Non è soltanto un segnale di poca diligenza. E’ soprattutto un torto fatto ai propri compagni di lavoro, ai capi e ai clienti. «Tu non sprechi il tuo tempo, del quale non m’importa nulla – tuonò l’odioso miliardario Donald Trump a un collaboratore ritardatario – tu sprechi il mio, che non ti appartiene».
I bambini devono nascere in tempo, nel tempo previsto dall’ostetrico che fisserà il giorno del parto con la madre secondo i suoi impegni, e non secondo la notoria inaffidabilità delle previsioni. Le vacanze e i viaggi devono rispondere alla dittatura della “schedule”, del programma prefissato. Alle 12 colazione, 12 e 30 visita alle toilette, 13 partenza. E sono le 13, non la mezza o i trequarti.
Racconta Indro Montanelli, nelle sue memorie dal Giappone del primo dopoguerra, che il generale americano Matthew Ridgway, governatore supremo della nazione sconfitta, si presentò con qualche minuto di ritardo a un’intervista che gli aveva concesso a Tokyo e si profuse in scuse per avere fatto aspettare quell’oscuro, e a lui sconosciuto, giornalista italiano.
Tra le critiche più feroci, e diffuse, a Bill Clinton, presidente per i resto amatissimo, anche troppo, c’era quella di essere un tiratardi incurabile. E gli studi sul costo economico della non puntualità in tutto, nel lavoro, nelle consegne, nei trasporti, sono biblioteche.
Da ritardatario cronico italiano quale ero, dovetti riprogrammarmi il cervello, lavorando negli Usa, dopo avere “bucato” delle interviste. Mi ero ridotto a mettere l’orologio permanentemente avanti di mezz’ora, per recuperare, con questo patetico trucco, la mia incapacità di essere puntuale.
Ed è quello che cercai di spiegare al mo studente. Si laureò, infatti. Con sei mesi di ritardo.

Sul treno per Washington non si sono segreti

di Vittorio Zucconi

Nel tempo e nella furia delle intercettazioni elettroniche, che creano in chi le pratica e ne abusa l’illusione di poter sapere tutto su tutti con un computer, c’è ancora un luogo dove è possibile spiare con metodi più romantici ed efficaci. E’ un treno, anzi, “il” treno del potere, che trasporta ogni anno fra Washington e New York tre milioni e mezzo di persone che riassumono, in quel viaggio di 500 chilometri, i massimi segreti della politica e degli affari. Sono i pendolari del potere.
Il treno si chiama “Acela”, nome che vorrebbe richiamare in maniera onomatopeica il suono e l’idea di “accelerazione”. Questo TAV americano è l’unico in funzione in un Paese dove le lobby dell’auto, dell’asfalto e della compagnie aeree sono riuscite a bloccare ogni altro tentativo di costruire linee ad alta velocità, ed è il metodo preferito di trasporto fra le due “capitali” americane, Washington e New York.
Ogni giorno, attraversando i corridoi della prima classe e facendo attenzione a non essere sbattuti da un finestrino all’altro come una pallina da flipper per le oscillazioni sui vecchi binari, si vedono i volti più celebri del momento. Sull’Acela ho incrociato Hillary Clinton e Joe Biden, prima che diventasse Vice di Obama, John Kerry e Condolezza Rice, Tom Clancy e Tom Wolfe, insieme con celebrità del giornalismo, dello sport, dello spettacolo. Ma i volti hanno una bocca, la bocca una lingua e la usano. Convinti che lo sferragliare del treno formi un guscio di privacy attorno a loro, i super pendolari parlano e, come accade spesso, gridano, se sono al telefonino. Scandali sono esplosi, quando lo sposatissimo governatore di New York, Elliot Spitzer, fu sentito trattare con una “madame” di Manhattan il nome e il prezzo di una escort. Gaffe dovettero essere cucite a fatica quando l’autorevolissimo conduttore di un talk show politico, Chris Matthews, spiegò ad alta voce che «Hillary Clinton è un personaggio tutto costruito, da serial tv», senza sapere che nella carrozza più avanti viaggiava proprio Hillary Clinton, che ne fu prontamente informata. Sheryl Crow, la cantante, fu registrata mentre al telefonino si lanciava in una scenata contro qualcuno alla Casa Bianca, dove quella sera avrebbe dovuto esibirsi. Il senior partner di un grande studio legale di New York, discuteva con il contabile del gruppo la favolosa retribuzione di un nuovo assunto che sarebbe dovuta restare segreta per non sollevare una sommossa in ufficio. Un avvocato concorrente lo sentì e si affrettò a twittare la notizia, scatenando i dipendenti che accolsero il capo al suo arrivo costringendolo ad aumentare a tutti la paghetta. Forse il culmine del ridicolo e dello spionaggio su questo “treno della verità” fu raggiunto proprio dall’ex direttore della NSA, l’agenzia di spionaggio elettronico oggi sotto scopa, Michael Hyden. Parlando in forma rigorosamente “privata” e senza attribuzione, con un giornalista al quale voleva passare informazioni utili per migliorare l’immagine pubblica ossidata della propria agenzia, Hyde, snocciolò segreti sulle “operazioni proibite”, i “controlli non autorizzati”, la pratica delle torture, accusando di bugie e fallimenti il governo. Non si accorse che dietro di lui un altro passeggero, un giornalista, registrava tutto. All’arrivo a New York, la spia della spia si presentò. «Avreste dovuto vedere la sua faccia», racconterà . Negli anni ’70, gli anni duri della Guerra Fredda, una spia sovietica passata agli Usa raccontò che la maggior parte delle informazioni che il KGB raccoglieva venivano dai giornali, dalle riviste specializzate e dal semplice ascolto di conservazioni “casual” nei bar, nei ristoranti, sugli aerei, nelle zone pubbliche dei ministeri e del Parlamento. Oggi, l’idea del treno può apparire antiquata e letteraria come le avventure sull’Orient Express o sulla Transiberiana. Ma dopo anni di viaggi su quel treno, sospetto che i 150 dollari del biglietto Washington New York sarebbero un miglior investimento spionistico dei 52 miliardi buttati per origliare la Merkel. Ascoltate le spie venute dal treno.

Con Yellen alla Fed tutti i soldi sono delle donne

di Vittorio Zucconi

Alta appena come le spalle di Obama, con un caschetto di capelli bianchissimi che ha il buon gusto di non pitturarsi di azzurro o di improbabili rossi tizianeschi e che a mala pena spuntava dal bordo del podio alla Casa Bianca, Janet Yellen è probabilmente la donna più importante del mondo. Dietro quella sua aria da nonnina sessantasettenne, che ti aspetteresti ai giardinetti o davanti all’asilo per dare una mano a genitori troppo indaffarati, questa economista scelta per guidare la Federal Reserve americana controlla il destino del dollaro. E a differenza di altre importanti signore, Janet non deve rispondere a partiti, parlamenti, maggioranze di larghe o improbabili intese. La presidentessa della Fed è rigorosamente, e completamente, autonoma. La possono licenziare, non sindacare.<br />Ma quello che rende storica l’ascesa di questa donna è che su di lei non possono pesare dubbi di “correttezza politica”, di quote rosa, di strizzate d’occhio all’elettorato femminile, per due chiare ragioni. La prima è che Obama non può essere più rieletto, essendo al secondo giro sulla giostra, e comunque al voto per il suo successore mancano tre anni, che in politica sono un’era geologica. La seconda è che nel suo caso di tratta di pilotare il dollaro americano, che rimane la moneta principale del nostro sistema solare, e quando si gioca di soldi nessuno scherza, e nessuno fa favori. Se dovesse sbagliare le previsioni e portare il mondo al naufragio nessuno le concederà attenuanti per il suo essere femmina. La presenza di donne in politica e soprattutto nelle stanze dei bottoni sembra ormai essere un fatto normale e quasi scontato, ma non lo è affatto, non ovunque. Soltanto il 19% dei parlamentari nel mondo è femmina e la percentuale più alta è  in Rwanda e a Cuba, dove il ruolo dei Parlamenti non è proprio il massimo. Eppure la loro scalata verso gli attici dei palazzi è continua. Sono donne le tre persone che controllano le leve della grande finanza di stato e degli stati, la Yellen alla Fed americana, Christine Lagarde al Fondo Monetario Internazionale e l’ex ministro indonesiano dell’economia, Sri Mulyani Indrawati, direttore generale della Banca Mondiale. Talmente apprezzata è Sri Mulyani che quando annunciò le dimissioni dal governo di Giacarta, la Borsa indonesiana fu presa dal panico e crollò del 4 per cento in pochi minuti. Dilma Roussef governa il Brasile. Geun-hye Park è la prima presidentessa della Corea del Sud, eletta, un altro inedito per maschi o femmine, alla prima votazione con maggioranza assoluta. E se Cristina Kirchner deve molto al marito per avere ereditato la controversa guida dell’Argentina, Aung San Suu Kyi deve soltanto al proprio coraggio l’elezione al Parlamento della Birmania, nazione che lei è riuscita a cambiare in meglio come nessun altro aveva fatto, dopo averla trattata da prigioniera. Anche fuori dalla politica e dalla finanza, troviamo signore al volante di grandi organismi internazionali. La dottoressa Margaret Chan, cinese di Hong Kong, presiede l’Organizzazione Mondiale della Sanità, quell’ente che deve funzionare da sentinella, e poi da controllore, per le pandemie e le crisi sanitarie globali. La novità è che ormai l’ascesa di questa donne ai vertici di grandi agenzie, stati e organizzazioni internazionali comincia a non essere più una novità, e quando anche la Casa Bianca accoglierà la prima americana presidente, l’ultimo “cerchio magico” del maschilismo al potere sarà spezzato. Ne resterà ancora un fortino proprio dove non l’aspetti, nella casa della “Nonna del Dollaro”, di Janet Yellen. Per importante che lei sia, l’unico Premio Nobel in famiglia è il marito, George Akerlof, che lo vinse nel 2001. E lei ha confessato di essere quella che deve fare la spesa e tenere in ordine casa. Ma se lui è il Nobel al tavolo di cucina, che deve assistere a ilari conversazioni domestiche, uno degli studi che gli valsero il massimo riconoscimento era stato scritto in collaborazione proprio con la moglie. Si consolino un poco i maschilisti irriducibili, dunque. Dietro un uomo di successo, c’è sempre una donna. Anche se fuori casa, ormai, comanda lei.

Comperare i regali di natale è una faccenda da uomini

di Vittorio Zucconi

Hanno già cominciato a tintinnare da giorni, nelle pieghe dei programmi televisivi americani, fra la pubblicità all’ultima reincarnazione del pollo fritto e la promessa chimica di potenze erculee contenute nell’ultima pillola. Le “jingle bell”, le campanelline appese alla slitta dell’anziano cocchiere di renne, rintoccano implacabili con il cadere delle foglie e trafiggono il cuore con il pensiero che non vorremmo pensare: che cosa potrà, o dovrà, aspettarmi questo Natale? I regali natalizi, chiunque li porti (questa è una gentile concessione dell’autore che ha nipoti in bilico sul crinale delle loro tenere illusioni) sono per tutti, per i governi e per i commercianti, per i consumatori e per i lavoratori, un incubo confezionato dentro l’illusione della carta colorata e dei fiocchetti. Dal carico di quella slitta scampanellante, o dalla generosità dei gesù bambini con il Bancomat, dipendono molto più del sorriso o della delusione di chi riceve qualcosa o niente. Il Natale è il carburante che può alimentare il motore di un’economia o piantare l’auto senza benzina sul ciglio della strada. In questi anni di depressione, quando ogni giorno le streghe della statistica ci portano sacchi di carbone deprimenti, anche le tradizionali intemerate contro il consumismo e la degenerazione delle sante feste in orge commerciali si sono molto quietate. Dopo averci severamente rimbrottato per i consumi del superfluo e per gli sprechi, oggi siamo accusati di non consumare abbastanza, come se la scelta fosse una decisione morale e non un imperativo del borsellino. In attesa di un futuro nel quale torneremo a scambiarci vasi di terracotta con uova, pelli di pecora con sandali, ci si è resi conto che lo sfrenato consumismo di Tizio è il salario di Caio. E se Tizio smette di comprare, perchè non ha un centesimo in tasca o perchè ha la nausea da acquisti, Caio smette di mangiare. Dal viaggio del vecchio cocchiere, presto destinato a trasformarsi in intirizzito bagnino se il Polo Nord continuasse a squagliarsi, gli Stati Uniti si aspettano, prevede la Federazione nazionale dei dettaglianti, una strenna da 603 miliardi di dollari. Abbastanza soldi per comperarsi tutto il Pentagono e le forze armate, se uno volesse giocarci e se avesse le batterie giuste per farli funzionare. Sono duemila dollari, millecinquecento euro per ogni abitante, che per negozianti, grandi magazzini e siti per le vendite in Rete rappresentano spesso un terzo degli incassi di tutto l’anno, come la stagione estiva per le pensioni e i bagnini della Riviera. Ma nascosta nelle mostruose cifre complessive sulle spese per regali c’è un piccolo dato curioso. Nel gioco dei doni, sono gli uomini a pagare il pegno più alto. Sono mariti, fidanzati, compagni quelli che spendono molto più delle loro mogli, fidanzate, compagne in regali. Indipendentemente dal reddito, i maschi sborsano un terzo più delle femmine per i regali di coppia, in media 300 dollari di più e sono quindi gli attori principali, anche se spesso riluttanti, del grande show consumistico chiamato Natale. Sarà per questo che lo si pensa come un babbo, e non come una Mamma Natale? Le statistiche non spiegano se questa disparità nasca da un singolo acquisto costoso invece di tanti piccole strenne, se nasca da maggiore generosità maschile (dubbio), da code di paglia (possibile), o da decisioni prese affannosamente all’ultimo momento (probabile), quando con un tuffo al cuore ci si rende conto di essere al 23 di dicembre e non avere ancora provveduto a nulla, compensando il procrastinare con esborsi eccessivi. Avendo compreso dalla più tenera età che poche frasi sono più bugiarde e traditrici di quelle tre parole, «basta il pensiero». Per coloro che come me crebbero con Natali di grande tenerezza che portavano sotto l’albero mandarini e collane di “vecchioni”, cioè di castagne secche, ogni regalo fatto o ricevuto sembra troppo. Ma le campanelline rintoccano, rintoccano, rintoccano…

Caro la mamma ha una cosa molto hard da dirti

di Vittorio Zucconi

Sdraiata sul lettino dell’ecografo, la gelatina fredda spalmata sulla lieve protuberanza della pancia, Aurora vide, e ascoltò, per la prima volta il battito del cuore del bambino che portava dentro. Fu in quel momento che Aurora vide scorrere su quel monitor, insieme con il nebuloso profilo del figlio, il film del proprio passato. Un film di porno hard. Perchè lei, Aurora Snow, è stata una stella del cosiddetto “cinema per adulti” e le foto, le clip, i lungometraggi del suo lavoro sono disponibili ovunque, dalle stanze d’albergo a ogni tablet o smartphone. Nei primi anni 2000 aveva vinto premi per il porno nelle categoria “Migliore sesso a tre” e “Migliore Orgia”, con altre sottocategorie più dettagliate che vi lascio immaginare. E’ stato allora, uscendo dallo studio di radiologia in settembre, che si rese conto che quel bambino, diventato ragazzo, si sarebbe inevitabilmente imbattuto anche senza volerlo nel lavoro della sua mamma, perchè nella memoria totale di Internet tutto esisterà per sempre e nessun peccato potrà mai essere perdonato. Decise allora di giocare d’anticipo e di scrivere a quel futuro uomo: la lettera al figlio di un pornostar. «Caro figlio, voglio che tu sappia da me, e non da amici o per caso, che cosa e chi sia stata tua madre». «A 18 anni ero una brava studentessa all’Università della California a Irvine, ma non avevo un centesimo. Mi ero indebitata per la retta e per mantenermi, perchè i tuoi nonni erano poveri. Quando vidi l’annuncio su un giornale che offriva 2mila dollari al giorno per posare nuda corsi ai provini. Mi spaventava soltanto il timore di non essere abbastanza sexy, in mezzo a tutte quelle stupende ragazze, perchè ero sempre insicura, ma piacqui». I 2mila al giorno per foto di nudo diventarono 5mila al giorno quando accettò di fare sesso davanti a una cinepresa. Aveva 19 anni nel 2000 e nessun’altra occupazione avrebbe potuto pagare cifre del genere senza saper fare nulla, se non quello che più o meno bene tutti sappiamo fare. «Mi sentivo padrona del mondo, libera, e il pensiero di avere figli e una famiglia mi faceva ridere». Ma qualche anno dopo il premio per «Migliore attrice protagonista in un’orgia» del 2003, accadde un episodio apparentemente lontano da lei. Uno zio ebbe un gravissimo incidente in moto che lo mise fuori uso, fra ospedale e riabiltazione, per tre anni. Lo zio era vedovo, aveva due figli piccoli e in famiglia non c’era nessun altro che avesse i soldi per mantenere quei bambini. Così Aurora la regina della ammucchiate, la stella del porno, si scoprì a zompare dai materassi degli studios ai compiti a casa, ai gemiti artificiali ai pianti per le coliche vere, agli incontri con gli insegnanti, alle corse dal pediatra, per curarsi di due bambini. «Scoprii allora – scrive al figlio non ancora nato – che non soltanto non mi pesava quella vita da madre di famiglia, ma che mi piaceva e mi appassionava molto più di quello che facevo nel mio lavoro. Sentii che avrei voluto più di ogni altra cosa diventare io stessa madre, avere una famiglia, un amore mio, non da film. Ma chi avrebbe mai voluto una donna di ormai quasi trent’anni con più di dieci anni di porno hard alle spalle e le sequenze di lei in ogni posa e porcheria immaginabile, visibile a tutti in ogni stanza d’albergo e in ogni computer?». Lo trovò. Era un ragazzo di campagna, arrivato a Los Angeles per studiare e che si era buttato nell’industria del porno non come attore, ma come assistente e uomo di fatica. Lui le disse semplicemente: «Devi soltanto smettere. Pigia il bottone di eject, come i piloti negli aerei e io ti raccoglierò mentre cadi». «Sarebbe troppo facile e ipocrita per me dirti adesso che ho sbagliato, ma ti dico una cosa diversa, figlio mio. Nella tua vita farai le tue scelte, come io feci le mie, ma non perderai mai il mio amore come io non persi quello di tua nonna, quando un conoscente le portò una video cassetta con un mio film. Però devi sapere che ogni scelta ha conseguenze, che le tue decisioni ti seguiranno per tutta la vita e che la strada più facile che hai davanti è spesso la più sbagliata. Ma che è possibile, se lo vuoi davvero, ricominciare. I love you».

Da madre bambina a comandante di 10mila poliziotti

di Vittorio Zucconi

All’età di 14 anni, nei primi giorni dell’anno scolastico 1986/87, Cathy fece la stessa scoperta che 400mila teenager americane fanno ogni anno: era incinta. E non c’erano dubbi sul perché lo fosse. Alla festa per conoscere i nuovi compagni del liceo dove si era iscritta, Cathy aveva sciolto la propria timidezza nella tinozza del punch al rum e improvvisamente tutti i ragazzi presenti erano sembrati irresistibili e lei la donna più desiderabile del mondo.
A quell’età, nei lontani e rustici sobborghi di Washington dove lei viveva con la famiglia, il padre vigile del fuoco, la madre contadina, la possibilità di interrompere la gravidanza era remota. Cathy si fece coraggio, ne parlò con la madre, ne discusse con il padre e decise di tenersi la bambina che le stava crescendo dentro. Ma a una condizione. Sarebbe stata costretta a lasciare la scuola e lavorare nei campi di famiglia, tra stalle e trattori. Né il padre né la madre avevano soldi e tempo per allevarle la figlia mentre lei frequentava il liceo.
La storia di Cathy sarebbe stata dunque la fotocopia di altre storie di piccole donne che nelle gravidanze adolescenziali – fortunatamente in declino – vedono naufragare la propria vita. Non importa neppure che ci sia o non ci sia un padre naturale che si assuma la responsabilità di quello che ha fatto. Cathy, dopo la nascita della bambina, sposò il coetaneo che l’aveva messa incinta. Il matrimonio era durato meno di due anni.
Ma se Cathy Lanier non seguì il destino di tante madri bambine e siamo qui a raccontare la sua vita é perchè aveva un sogno speciale, qualcosa che ben poche ragazze di quell’età coltivano. Il desiderio che la consumava era di fare l’agente di polizia. Mentre in casa il resto della famiglia divorava ore di teleromanzi, di sit-com, di horror orrore, lei si beveva tutti i telefilm polizieschi nei quali attrici con l’uniforme blu degli agenti o i severi tailleur pantalone delle investigatrici acciuffavano criminali, proteggevano i cittadini e scioglievano misteri.
Da sola, lavorando di giorno e studiando di notte, Cathy si preparò per quell’esame di cultura generale chiamato GED che negli Usa funziona da surrogato al diploma di scuola superiore. Quando lo ottenne, riuscì a iscriversi nell’Università del Distretto di Colombia, il college pubblico di Washington che accoglie generosamente quasi tutti.
Facendo avanti e indietro tutti i giorni per i 60 chilometri che dividevano la sua fattoria nel Maryland dal centro della capitale, prese la laurea in criminologia con voti talmente alti da permettere una borsa di studio completa alla ben più autorevole Johns Hopkins di Baltimora per un Master. E quando la figlia imparò a prendersi cura di sè, Cathy finalmente entrò a tempo pieno all’Accademia della polizia di Washington. Due anni dopo, il sindaco della Capitale e il capo della polizia, che nelle città americane dipende dal Comune, le consegnavano il “bagde” da poliziotta, la pistola, l’uniforme blu e il diploma.
Nel pomeriggio del 16 settembre scorso, dentro una Washington sbigottita e attonita dopo il massacro di dodici impiegati nell’Arsenale della Marina, quando i riflettori delle telecamere si accesero sul podio delle autorità per saperne di più, per capire, e soprattutto per calmare una città angosciata, le luci illuminarono il viso pallidissimo, le stelle sulle spalline, i capelli biondi corti e gli occhi azzurri di Cathy Lenier. Il capo della polizia di una delle città più importanti, pericolose, violente del mondo.
E’ lei, la ragazzina che rischiò di annegare la propria esistenza in un catino di punch al rum a 14 anni, la prima donna elevata alla guida di una forza di polizia che conta quasi 10mila agenti. E’ˆ lei, una biondina di quarant’anni, ad avere frantumato non soltanto il “soffitto di cristallo” che blocca l’ascesa di tante donne alle massime poltrone, ma anche la barriera del colore della pelle, in una città dove tutti i sindaci e tutti i capi della polizia sono sempre stati neri.
Che straordinario luogo l’America. Una città a grande maggioranza nera porta una bianca alla guida della polizia. E una nazione bianca porta un nero alla guida del Paese. Sarà perchè se lo meritano ?

Per l’insonnia avete mai provato la lavanda?

di Vittorio Zucconi

La barzelletta è talmente vecchia, che forse qualcuno l’ha dimenticata. Racconta di una coppia che acquista un caprone e lo sistema nella camera da letto. E come farete per la puzza? Domanda sbigottita una conoscente. Oh, pazienza, povera bestia, si abituerà Ma non è una barzelletta la scommessa da milioni di dollari che uno dei mostri multinazionali dei prodotti per il bucato e la toiletteria ha fatto sul naso dei consumatori. Nella continua e finora infruttuosa ricerca di una cura per il più diffuso dei disturbi che affliggono l’umanità soprattutto nelle nazioni cosiddette sviluppate – l’insonnia – un nuovo nemico è stato individuato. Non sono il rumore, nè la luce, e neppure il russare del coniuge (questo falso scientifico è aggiunto soltanto per interesse privato del Signor Autore). Sono gli odori e non necessariamente atroci come quelli emanati da un caprone. In una ricerca serissima condotta dalla National Sleep Foundation, l’ente nazionale americano che studia le turbe del sonno, questa multinazionale i cui prodotti ognuno di noi ha sicuramente usato più volte, nella lavatrice, in cucina, in automobile, sul proprio corpo, migliaia di persone in dieci nazioni molto diverse tra di loro, come gli Stati Uniti, il Canada, il Messico, il Giappone, il Regno Unito e la Francia, che si porta dietro la non sempre giustificata calunnia di scarsa igiene personale, hanno rivelato il segreto della loro agitazione olfattiva. Il risultato della ricerca è che l’odore più irritante per tutti, con la sola e inspiegabile eccezione dei giapponesi, è quello della muffa, molto più fastidioso di ogni altro immaginabile. Ma quella che accomuna tutti i popoli che cercano di prendere sonno in una camera da letto e non ci riescono è  l’indefinibile, eppure riconoscibilissima, “aria viziata”. Escluso il fumo, che rende l’aria naturalmente insopportabile, “l’aria viziata” è un insieme indistinto di pesantezza, un cocktail di odori che provengono da armadi, mobili, suppellettili, coperte, pavimento, soprattutto se coperto da tappeti pesanti o da moquette di fibra sintetica, da vecchi comodini e cassettiere, un qualcosa che tutti abbiamo annusato. E se è vero che agli odori sgradevoli, come insinua il paradosso della barzelletta, ci si abitua e la percezione decresce rapidamente (o nessun soldato nella storia avrebbe mai potuto dormire in una caserma e nessun convitto in un collegio) coricarsi con le narici offese produce una ferita a quella serenità indispensabile per prendere sonno. Naturalmente la mega ultra super corporation globale ha subito predisposto l’antidoto chiamato appunto “Sonno Sereno”, un deodorante venduto in forma di spruzzatore, di tavoletta da attaccare alle prese elettriche, come quelle antizanzare, o di sottili fogli da infilare nella biancheria e negli armadi per sprigionare il profumo che la ricerca indica come il miglior amico del sonno: la lavanda. Disponibile anche il profumo di gelsomino e di latte caldo, testimonianza del mito secondo il quale un bicchiere di latte caldo prima di coricarsi concili il sonno, promette il relax per via nasale. Che la lavanda sia uno dei profumi più delicati e deliziosi proposti dalla natura appartiene alla categoria delle “invenzioni dell’acqua tiepida”, come sanno generazioni di donne, soprattutto contadine, che spargevano fiori di lavanda nella biancheria per diffonderne l’aroma, ma la relazione fra questa pianticella e il sonno è nuova. Non è per nulla se la maggioranza di coloro che siedono nel consiglio d’amministrazione della mega azienda sono femmine. E oggi basta appicciare davanti a qualsiasi affermazione la parola magica, “ricerca”, perché sembri importante e indispensabile. Da bravo criceto dei consumi, e da insonne cronico, ho naturalmente costretto la moglie (non sia mai che un vero “macho” vada al supermercato a comperare profumi per maglie e mutande nei cassetti) a imbottire gli armadi della nostra camera da letto. L’effetto è stato prodigioso. Continuo a non addormentarmi esattamente come prima, ma ora mi piace stare sveglio a guardare il soffitto fiorito.

La telemedicina è già qui. Anzi sta dentro di noi

di Vittorio Zucconi

Che ore sono? Si chiede la signora guardando l’orologio al polso. E’ ora che ti precipiti al pronto soccorso, risponde calma e imperiosa la voce sintetica. E poi snocciola: glicemia impazzita, scompenso cardiaco, arterie bloccate, pressione sballata, corri, corri. La signora, se a quel punto non è già stramazzata, è aggrappata al telefono per chiamare l’ambulanza.
L’avvenire della medicina, ci è stato detto in questi giorni a un convegno americano sulle biotecnologie, è questo. Non più soltanto orribili computerini da polso per avere incidenti d’auto grazie a una nuova distrazione, come se non bastassero telefoni smart, sms, vivavoce, gps, radio e il passeggero rompiscatole nel sedile accanto.
Il futuro è  il laboratorio analisi personale, il microapparecchio che, al polso, misura pressione sanguigna e pulsazioni, ossigenazione del sangue, glicemia, respirazione e tutto quello che può essere misurato senza invadere con sonde e attrezzi vari il corpo umano. E non è tutto. Al simposio organizzato dalla famosa e rispettatissima clinica Mayo si immagina di andare anche oltre questi monitor da indossare, che già in parte esistono come nel caso dell’elettrocardiografo portatile Holter, in uso da anni.
Qualcomm, la principale azienda produttrice di microchip per i nostri telefonini, sta finanziando lo studio di sensori iniettabili, di nanoparticelle che possono essere appunto iniettate con una qualsiasi siringa e viaggiare all’interno del corpo per segnalare problemi come l’occlusione di arterie, emboli, emorragie e segnalarle al laboratorio da polso. In alcuni esperimenti, questi sensori hanno saputo prevedere un infarto con due settimane di anticipo sull’evento.
Questo, dicono gli analisti di Borsa, è il settore della biotecnologia medica nel quale si riverseranno gli investimenti nei prossimi anni, portando noi umani alla terra promessa non soltanto della diagnosi precoce, ma addirittura preventiva. Sarebbe una versione sanitaria di Minority Report, il racconto di fantapolizia futuristica che immaginava di poter individuare un crimine prima che fosse commesso e dunque impedirlo.
Nessuno, almeno nella nazioni dove Internet a banda larga, quella capace di trasportare molti dati più velocemente, sarebbe più solo con le proprie ansie e i propri disturbi. I sensori nelle vene rileverebbero anomalie e rischi segnalandoli all’infermiera al polso. L’infermiera al polso scaricherebbe, via Rete, i valori registrati al cervellone centrale, che può essere distante migliaia di chilometri, essendo le distanze fisiche irrilevanti in Internet. Il dottor cervellone a quel punto confronterebbe quei numeri con la propria immensa banca dati, rispondendo con una diagnosi o un consiglio, che può andare da “prenda un purga” ad “aggiorni subito il suo testamento”. La IBM sta da tempo lavorando a un sistema del genere battezzato con il nome del celebre sottopancia di Sherlock Holmes, “Watson”.
E’ dunque un avvenire di perfetta paranoia medica, quello che attende noi umani. A ogni discussione con il coniuge, l’orologio avvertirebbe che la pressione sanguigna sta salendo troppo: fare pace subito. A ogni fetta di torta, le sentinelle appostate nello stomaco, nel fegato, nelle arterie brontolerebbero la loro disapprovazione per tutti quei carboidrati e quei grassi. Al quarto o quinto bicchierozzo di vino il monitor segnalerebbe al proprietario (e magari – perchè no? – alle autorità di polizia) che il portatore è alticcio e se si mettesse al volante andrebbe immediatamente fermato. Senza dimenticare l’esame del nostro bagaglio genetico, capace di ipotizzare future patologie gravissime e creare l’effetto “Angelina Jolie”, l’attrice che si è sottoposta alla doppia mastectomia per la probabilità di sviluppare tumori al seno nel futuro.
Sarà l’apoteosi dell’ansioso, l’orgasmo dell’ipocondriaco. L’equivalente degli arresti domiciliari biomedici con manette elettroniche. Sapremo tutto del nostro corpo, anche quello che non vogliamo sapere. E già non mi sento, oggi, niente bene.

La differenza tra i sessi? la senti al supermercato

di Vittorio Zucconi

E’ quasi sera, nel grande supermercato vuoto. Alla coda davanti all’unica cassa aperta, due donne davanti a me spingono carrelli che raccontano la loro vita. Una di loro, la più giovane, con uno zainetto che potrebbe tradire il suo stato di studentessa, spinge un cartone di latte, una cenetta da zapping nel microonde, una vaschetta di gelato di cioccolata. Niente altro. L’altra, davanti a lei, ha 44 anni – scoprirà più tardi – e ha riempito il carrello di una piccola cornucopia: due bisteccone con osso, prezzemolo, rosmarino, odori vari, panna acida, grosse patate da cuocere al forno, due bottiglie di Cabernet californiano, vaschette di insalate verdi diverse, una torta gelato, accessori per il trucco, persino un flacone di aceto balsamico. Falso, mi dice il mio occhio esperto di modenese, ma non oso dirglielo.
«Ah ha – sorride la ragazza osservando la più grande svuotare il carrello sul nastro trasportatore della cassa – una cenetta importante, stasera, eh?». «Sì- risponde l’altra come se si conoscessero da sempre – ma questa è l’ultima volta che cucino per lui. Se non si decide a chiedermi di andare a vivere con lui, lo butto fuori».
«Da quanti anni vi vedete?», continua la più giovane. «Da cinque, lavoriamo insieme». «Cinque anni? – interviene la cassiera mentre spara sulle barre dei prodotti il laser per lo scanning – Troppi, cocca bella, ti sta prendendo per il sedere, non ha nessuna intenzione di vivere con te, ma solo di mangiare quello che prepari e tutto il resto, mi capisci?». «E che paghi tu», propone la giovane che deve avere seri problemi di bilancio. «Ma ho 44 anni – protesta la signora della bistecca – dove ne trovo un altro alla mia età , con un divorzio e una figlia al college?». «Piantalo», intima la cassiera porgendole la ricevuta come fosse una sentenza. «Passa una bella sera e divertiti», la saluta la giovane, più pratica.
Ascolto questa conversazione con il classico sbalordimento maschile davanti alla capacità  delle donne di lanciarsi in conversazioni e scambiarsi opinioni di vita privata tra sconosciute, con una naturalezza e una serietà  che per noi uomini sarebbe impossibile. Se tre maschi si fossero trovati nella stessa fila, al massimo sarebbe cominciata una discussione sulla sconfitta della propria squadra preferita o sui rovesci finanziari subiti in Borsa. Nel migliore dei casi, sarebbe partita una barzelletta molto probabilmente sporca, una di quelle che cominciano con «un marito torna a casa alla sera…».
Non c’è “difference” più differente fra i sessi del rapporto che maschi e femmine hanno con persone dello stesso genere e della conversazione che fra loro scaturisce. Ci sono studi di neurologia e di psichiatria a cataste – l’ultimo prodotto dall’augusta Stanford sul senso dell’umorismo – che confermano quello che dieci minuti in fila al supermercato o un paio d’ore su una spiaggia o in piscina dimostrerebbero gratis.
Tre donne sotto un ombrellone parleranno prima o poi invariabilmente di salute, la loro, dei figli, dei mariti (per deprecarne la incoscienza). Narreranno di esperienze mediche od ospedaliere, rideranno per lo stolto e vano egoismo dei maschi. Rideranno dei propri malanni e degli insulti del tempo sulla pelle, come se si conoscessero dalle elementari. Ma non racconteranno mai barzellette. Non ricordo di avere mai sentito una donna raccontare una barzelletta, quasi sempre con la scusa del “non me ne ricordo neanche una”. Mentre ho dovuto subire interminabili e minuziosissimi racconti sulle peripezie o i successi dei figli, per i quali dispongono di una memoria assoluta.
Avrei pagato volentieri una piccola somma per sapere come era andata a finire la cena preparata con tanto dispendio di soldi e fatica dalla signora di 44 anni, ma naturalmente non lo saprà mai, anche se il mio voto segreto andava alla cassiera che le raccomandava di scaricare quel mangiabistecche a ufo. Ma se avessi osato intervenire e intromettermi in quel dibattito a tre, magari facendole amichevolmente notare che quell’aceto era balsamico come io sono il Presidente della Repubblica, la risposta silenziosa sarebbe stata una semplice, devastante occhiata femminile: «Ma tu di che t’impicci? Non puoi capire». Tu sei soltanto un uomo.

Tutti in barca a Nantucket navigando sul web

di Vittorio Zucconi

Sul ponte scoperto della “Grey Lady”, la Signora in Grigio che mi traghettava dal porticciolo di Hyannis, un tempo il regno dei Kennedy, all’isola di Nantucket per un ultimo straccetto di vacanza prima della ghigliottina di settembre, trentuno persone sedevano nel sole un po’ avaro di fine agosto. Facile contarle, perchè il viaggio dura esattamente un’ora – la Signora in Grigio è sempre puntuale – e occorre passare il tempo.
Non erano trentuno persone speciali, trentadue con me. C’erano coppie di mezza età  abbondante e chiaramente danarose avviate verso cottage sull’isola che non costano mai meno di un milione; turisti un po’ scamuffi con zainetti che speravano di trovare alloggi a prezzi non da riscatto; giovani coppie con l’aria leggermente emozionata di chi sente l’amore vibrare come i motori del grande catamarano sotto il sedere.
Mentre la nave era ferma, e i motori spenti, tutti gli occhi erano fissi sul porto affollato di barche e yacht stupendi, o sulle spiagge della costa, dove un tempo i “Kennedy Boys” e le “Kennedy Girls” correvano verso i loro destini. Fu nelle acque che il nostro traghetto solcherà , che s’inabissòil Piper pilotato con divina incoscienza da John John Kennedy, trascinando nel fondo la moglie Carolyn e la cognata Lauren.

Ma appena i motori aumentarono i giri e la Signora si staccò dal molo, tutti volti che guardavano il mondo si abbassarono. Anziani distintissimi e coppiette da tutto compreso, ragazzini nei bermuda d’ordinanza con scarpe da barca e ragazze nelle brachine cortissime con ai piedi i flip flop obbligatori, impugnarono smart phone e tablet e si immersero in un altro mare. La “Grey Lady” ha il proprio wi-fi a bordo, gratuito e larghissimo.
Semmai avessi cercato un’immagine evidente di quella che ormai anche la psichiatria ha definito una forma di tossicodipendenza, la «Internet addiction», il ponte scoperto del traghetto di Hyannis me l’avrebbe offerta. Ecco uomini e donne, di varia condizione sociale, età , interessi e certamente cultura, scattare al primo segno di vita del collegamento wi-fi per ignorare la realtà  che li circondava e preferirle l’illusione di quei piccoli schermi.
Era tutto un twittare, un picchiettare sui tasti, un diteggiare, un bloggare, un contemplarsi su facebook, mentre accanto al nostro battello sfilavano, ignorate, incantevoli barche d’altura con le vele tese, yacht con elicottero sul ponte, gozzetti governati da orgogliosi proprietari di mezzi più modesti e la costa spiegava la collana delle classiche ville del New England, coperte dai coppi di legno ingrigiti dal tempo.
Erano tutti, anzi, eravamo tutti perchè anch’io non seppi resistere alle sirene e twittai una foto con la casa che fu dei Kennedy sullo sfondo, candidati per il nuovo reparto di psichiatria all’Ospedale Regionale di Bedford, aperto in Pennsylvania. E’ in funzione da questo mese di settembre per curare, con un ricovero e un programma di dieci giorni, gli “Internet addicts”, coloro che non riescono a sopravvivere senza spararsi nel cervello ore e ore di Internet.
La psichiatra che dirige il reparto, la dottoressa Kimberly Young, è convinta che, la cito, «la dipendenza da Internet cominci a creare danni paragonabili a quelli dell’alcol», e snocciola statistiche su matrimoni falliti, incidenti automobilistici, posti di lavoro perduti, provocati dall’intossicazione da Rete.
Il difficile, in questo ospedale dove i tossici da Internet sono ricoverati insieme ai tossicodipendenti da sostanze illegali o da medicinali, è tracciare una linea fra l’uso ormai indispensabile della Rete e l’abuso.
Nel caso della “Signora in Grigio” il confine tre il reale e il virtuale era ovvio. Fino a quando dal ponte la vista era magnifica, il panorama della natura e dell’opera umana era squisito, tuffarsi nella pozzanghera degli smartphone o dei tablet era palesemente “addiction”, dipendenza. Ma appena la terra scomparve, l’oceano divenne una monotona superficie grigia senza più tracce umane, benedetti erano il wi-fi, la Rete e i social network. E fu a quel punto che scoprii che la batteria del mio smartphone era scarica. Se ci fosse stato a bordo un pusher di caricatori per iPhone, avrei pagato.

Il nido è vuoto, finalmente si torna in città

di Vittorio Zucconi

Il nido è vuoto. I figli sono volati via. Nel giardino che sembrava sempre troppo piccolo ora tutto è troppo grande. Lo scivolo di plastica si screpola sotto il sole. La piscinetta gonfiabile è una buccia grinzosa e l’altalena penzola sbilenca. Per 21 milioni di case americane questi di fine estate sono i giorni del panico, i momenti nei quali, dopo avere caricato fino all’esplosione il Suv di famiglia per accompagnare l’ultimo nato al college, i genitori tornano a casa per guardarsi in faccia in un silenzio che né pianti e capricci di bambini, né scenate di teen agers riempiranno più.
L’American Dream, la casetta nei sobborghi e nella suburbia lontana comperata decenni prima con debiti e mutui “per i bambini”, nell’arco di poche ora s’inverte e diventa un American Nightmare, la vertigine del nido vuoto. Per madri sole, che hanno cresciuto da sole anche l’uccellino più piccolo ormai divenuto grande, la sindrome di quella casona improvvisamente muta può essere particolarmente acuta, ma anche per le coppie più solide il sentimento di avere imboccato una strada senza ritorno è intenso e difficile, come un divorzio, un trasloco, la perdita di una persona cara.
Quando lasciai l’ultimo dei miei figli nel dormitorio della sua università , dovetti fermarmi in un’area di parcheggio dell’autostrada per piangere a dirotto in pace ed evitare di impastarmi lacrimosamente contro un Tir.
E’ un rito di passaggio, questo dell’empy nest, del nido vuoto, che è esploso negli ultimi cinquant’anni con un’ampiezza che l’esodo dalle metropoli verso i sobborghi, e poi il boom della frequentazione universitaria, aveva reso inevitabile. Ma c’è qualche cosa di nuovo, forse un’altra imponente migrazione interna, che il volo dei passerotti divenuti aquile sta producendo: la transumanza in direzione opposta.
Sono sempre più numerose le coppie, o i genitori singoli rimasti a casa senza più figli intorno, che abbandonano la family home, la villotta nel verde, per tornare a vivere nel caos, nella confusione, nei pericoli, ma almeno nella vita della città .
Accettano volentieri, e volontariamente, il proprio downsizing, come si dice in economia, la riduzione del proprio spazio abitativo. Vendono la casa da tre stanze da letto, tre bagni, garage doppio, giardino, nei sobborghi e la permutano con appartamenti molto più piccoli, ma molto più facili da tenere e mantenere. In cambio, ottengono il piacere di vivere tra altri esseri umani, di poter andare al ristorante, a prendere il caffè, a scambiare due chiacchiere, a fare qualche spesa senza dover per forza avviare l’automobile e percorrere chilometri.
Non è ancora un “grande rientro” dopo “il grande esodo” degli anni Cinquanta, come direbbero i luoghi comuni da telegiornali, ma è un’inversione del senso di marcia che per mezzo secolo era stato dominante. La superstrada a senso unico che aveva portato 70 milioni di americani via dalle grande città  verso quartieri sempre più lontani costruiti per attirarli e per accoglierli è diventata a due sensi di marcia.
In città come New York, Boston, Washington, San Francisco, dove il cuore urbano è riuscito a sopravvivere – a differenza di Detroit – agli infarti delle crisi, il prezzo degli appartamenti aumenta del 15 per cento medio all’anno, mentre di altrettanto cede il valore delle case unifamiliari più distanti. Quartieri fino a pochi anni or sono considerati inavvicinabili per crimine, squallore, pericoli, sono rasi al suolo per lasciare posto a nuovi palazzi d’appartamenti “di lusso”, dove lusso sono la necessaria piscina sul tetto, la palestra con gli attrezzi ginnico-sportivi e un portiere (meglio: concierge).
Ma sono soprattutto i più ricchi, i “nidovuotisti” che abbandonano le verdi vallate per tornare fra i canyon di cemento, perché la implacabile legge di mercato sta spingendo i prezzi degli appartamenti verso l’altro. L’80 per cento delle persone rimaste senza i figli nel fortino del loro passato, rimangono aggrappati a quella che fu la casa dei sogni. Aspettando per addormentarsi, nel silenzio della notte, di sentire la porta del garage che si apre per segnalare il ritorno a casa di quella disgraziata sempre in ritardo, che non tornerà  più.

La prova per una coppia? Un giorno di shopping

di Vittorio Zucconi

Se un giorno consulenti, sacerdoti, pastori, amici, parenti o chiunque abbia a cuore la stabilità  di relazioni o matrimoni decidessero di far sul serio nella preparazione della coppia a una vita in comune, anziché sottoporre i malcapitati a prediche, consigli e test psico-clinici inutili, dovrebbero sottoporre i due alla più terribile e indicative delle prove: la “prova shopping”. Dalla temuta giornata all’Ikea, che ha condotto più fidanzati e sposi alla disperazione, alla semplice esplorazione di un centro commerciale alla ricerca di “quelle” scarpe, di quel giubbotto o di quella camicia, nulla smaglia un rapporto di coppia quanto l’andare a fare, o a cercare di fare, acquisti insieme.
Non si tratta neppure di soldi, contrariamente a quanto subito si potrebbe pensare. Tra i sessi esiste una profonda, certificabile e incolmabile differenza in materia, che probabilmente ha la solita origine nell’istinto ancestrale della nidificazione (spiegazione che va sempre bene per tutto) e che esplode al primo segno della temuta proposta, quasi sempre fatta da lei, del “domani andiamo a fare spese”. Una ricerca della Università  del Minnesota, lo Stato americano che ospita uno dei più mostruosi shopping center del mondo – il Mall of America – su 5mila soggetti campione, scelti fra intervistati di ogni reddito, possibilità  di spesa, cultura ed età , ha cronometrato la soglia di sopportazione di maschi e femmine: gli uomini resistono, al massimo, 26 minuti. Le donne arrivano a due ore.
Non è necessario andare in Minnesota e nell’America Mall, luogo nel quale ebbi la cattiva idea di entrare uscendone dopo un’ora in preda a incubi e a oscure tentazioni stragiste, per confermare lo studio della facoltà . Basta guardarsi intorno e osservare il comportamento di maschi e femmine nel labirinto colorato e luminoso dei negozi e grandi magazzini.
I sintomi della crisi sono evidentissimi. Mentre signore, signorine e ragazze provano, osservano, scartano, confrontano, pongono terrificanti domande al proprio accompagnatore tipo è «come mi sta?», o «mi ingrassa?», uomini di tutte le età  si deconcentrano e vagolano come bambini. I cinque sintomi che state perdendo irrimediabilmente il vostro partner maschio sono precisi:
1) Si allontanerà  verso un reparto diverso del grande magazzino.
2) Uscirà  dal negozio per entrare in un altro qualsiasi, conducendo a liti sul «ma dove cavolo (eufemismo) eri finito?».
3) Troverà  da sedersi fuori, tuffandosi nel proprio smartphone per trovare le ultime sul mercato calcistico o sulle dichiarazioni di un oscuro politicante.
4) Osserverà  con esagerata attenzione i passanti, soprattutto femmine.
5) Sarà  colpito da improvvisa necessità  di nutrimento o di toilette.
Non c’è dunque prova d’amore più profonda e sincera da parte di un uomo del seguire la propria compagna oltre i 26 minuti mentre lei prova una trentina di paia di scarpe e una dozzina di jeans concludendo che nessuna di loro la soddisfa ed è quindi necessario ricominciare la ricerca in un altro negozio o – sublime martirio – un altro giorno. Non c’è sacrificio più nobile, da parte di una donna, che ridurre al minimo umanamente possibile il tempo trascorso alla ricerca del giubbotto che non la faccia sembrare grassa e il numero di scarpe provate che non tormentino il piede.
Delle insofferenze e allergie maschili allo shopping, sia nelle sue forme più umili, di piccole spese quotidiane, sia di quelle più impegnative per portafogli e per tempo, i commercianti superbamente s’infischiano. Essi conoscono bene i dati e sanno che, almeno negli Usa, il 93% degli acquisti alimentari, l’80% dei non alimentari abbigliamento incluso e il 74% dei cosiddetti “beni durevoli” come frigoriferi, televisori, elettrodomestici, sono fatti da donne. Quindi a loro si rivolgono, dalle lusinghe del “window shopping”, il “lecca vetrine”, all’esibizione della mercanzia, concedendo al massimo qualche cosa per i bambini, da tenere buoni mentre cercano di sbucciare le mamme.
Gli uomini, si arrangino. Potranno sempre passare il tempo e rosolare guardando altre donne e fantasticando che tutte siano diverse da quella che li ha trascinati a fare acquisti.

Non sempre abbiamo l’acqua alla gola

di Vittorio Zucconi

Senza conoscerne il nome scientifico, Morgan ne soffriva fin da bambina, quando stipata nella cabina del pick-up del papà  muratore con le due sorelle e la madre accanto attraversava il lunghissimo ponte sulla Baia di Chesapeake verso una mezza giornata sulle spiagge del Delaware. Quella lunga curva in saliscendi di ferro e di cemento sospesa per sette chilometri sull’acqua, come un mostruoso toboga di un parco acquatico per ciclopi, la costringeva a chiudere gli occhi e concentrarsi sulla voce della mamma che cantava le filastrocche dei bambini.
La crisi di ghefurafobia, il terrore dei ponti, dal greco (in questa rubrica non si bada a spese per incrementare la cultura classica) l’afferrò puntuale anche quel pomeriggio del 21 luglio scorso quando raggiunse il ponte sulla Baia diretta verso un fine settimana con gli amici. A 22 anni ormai, Morgan Lake non era più una bambina e non poteva più chiudere gli occhi, specialmente perchè al volante c’era lei, e sola. Aggirare quel ponte, un capolavoro di ingegneria civile quando fu inaugurato nel 1952 ma oggi troppo stretto e insufficiente per il traffico, era possibile, ma la deviazione avrebbe allungato il viaggio di due ore e Morgan aveva fretta di arrivare. Fece un respiro profondo, ignorò il cartello che precede tutti i lunghi ponti autostradali americani e invita a chiamare in soccorso la polizia per scortare chi fosse paralizzato dalla ghefurafobia, e imboccò la prima campata.
I consigli per chi soffre di questa paura dicono di guardare diritto davanti e strappare la mente alla massa di acqua che scorre al fianco, a tratti vicina pochi metri, altri anche venti più sotto. Ma Morgan non poté fare a meno di notare che lo specchietto retrovisore si era improvvisamente riempito di una massa mostruosa. Il muso squadrato di un “18 wheeler”, della motrice di un tir a 18 ruote che si era avvicinato al paraurti posteriore.
Morgan accelerò, ma come negli incubi, più lei accelerava più il muso del camion si faceva sotto. Sembrava il replay di uno dei primi, e più angosciosi film di Steven Spielberg lanciato nel 1971, Duel.
Lei cercava di correre più veloce, oltre il limite di velocità  e la soglia della propria paura, intrappolata fra il terrore di perdere il controllo dell’auto sul ponte stretto e umidiccio e quello di essere tamponata. Accelerava, e il muso era sempre più vicino. Si faceva sotto, più sotto, vicinissimo e Morgan sentì il colpo. Perse il controllo dell’auto che zigzagò fra le due sole corsie e sbandò di lato. Quando il mostro la colpì di nuovo, questa volta la speronò a 90 gradi, come una pallina da golf centrata dalla mazza.
La botta frantumò i finestrini e fece schizzare via il parabrezza. Morgan, legata al sedile dalla cintura, e lo scheletro della macchina volarono oltre le barriere di cemento e il parapetto, precipitandole da un’altezza di nove metri, tre piani, nelle acque scure della baia.
Con i finestrini sfondati, si riempi rapidamente di acqua inghiottendo Morgan. Ecco, oggi è il giorno, e questo è il modo nel quale morirò, fu il suo ultimo pensiero. Anzi, il penultimo, perché questa donna che aveva visto realizzarsi in tutti i dettagli gli incubi che aveva conosciuto da bambina, ci ripensò. Non vedo proprio perché dovrei morire in questo modo, a 22 anni, si disse.
Divorata l’ultima boccata d’aria rimasta nel gorgo d’acqua che la stava avvolgendo, Morgan si sganciò la cintura, si sospinse attraverso la cornice del parabrezza e sbracciando e sgambando riuscì a tornare a galla. La riva era vicina, i suoi abiti estivi, una maglietta e un paio di calzoncini corti, non la appesantivano, e il tanto sport fatto al liceo le avevano dato muscoli solidi. Sotto lo sguardo, e l’obiettivo esterrefatto di un automobilista di passaggio che si era fermato per soccorrerla e si era trasformato in cineoperatore dilettante, Morgan Lake affiorò dall’acqua e si adagiò esausta sulla sponda.
«A volte è possibile scegliere di non morire» dirà  il giorno dopo, reggendosi a un girello per sostenere le gambe contuse «e io sono stata fortunata». Ma la prossima volta, ha promesso, farò il giro lungo, per evitare il ponte e i camionisti ubriachi. Un duello vinto le è bastato.

In america ci vuole una fortuna per pronunciare un sì

di Vittorio Zucconi

Sono stato a un bellissimo matrimonio in Italia, quando una persona a me molto cara ha sposato un giovane che ho imparato ad apprezzare per la sua simpatia dietro la apparente scontrosità  montanara. Sono due giovani medici, che nessuno aveva obbligato a sposarsi. Avrebbero potuto continuare a vivere insieme,come fanno da tempo, senza che nessuno, non certo le rispettive famiglie, facessero loro pressioni.
Sarà  stato perchè gli sposi sono fatti a modo loro, o perchè all’inizio di una carriera in medicina, ovunque e in questa Italia 2013 in particolare, i soldi non piovono dal cielo, i due hanno scelto una celebrazione minimalista, gioiosamente dispettosa. Il momento più divertente dell’intero evento è stata la vista dello sposo che portava casse di barattoli pieni degli adorati “Salzgurken”, i cetrioloni marinati in agrodolce, da servire con gli antipasti.
Nel vedere la fatica, e la cura con quale hanno cercato di evitare gli eccessi e le spese di una festa di nozze, sono andato a rivedermi le nuove statistiche sui costi dei matrimoni negli Stati Uniti.
A Manhattan, dove tutto costa di più, la spesa media per un matrimonio è di 76 mila dollari, vicini ai 60 mila euro, informa la CNN Money. A Chicago, la seconda città più costosa per i matrimoni, la media è di 40 mila euro. In tutti i 50 Stati, dopo la discesa dell’anno orribile, il 2008, l’esborso sta tornando vicino ai 30 mila.
Molti di noi hanno visto la serie di film, e di sit-com, prodotti dalla “industria del matrimonio”, con il suo esercito di pianificatori, direttori, fiorai, sarti, acconciatori, pasticceri, caterer, pastori, sciamani, madri isteriche e spose disfatte, che complessivamente generano un conto annuale di 51 miliardi di dollari, 40 miliardi di euro. Una somma che farebbe piangere di felicità  e invidia qualsiasi governo europeo. E se i grandi tonfi dell’economia, come fu appunto il crack dell’autunno 2008, mettono un po’ a sedere anche la wedding industry, appunto l’industria dello sposalizio, essa rimane una delle attività  commerciali più resistenti alle crisi. Noi genitori delle spose americane, o anche futuri suoceri sempre chiamati a dare un contributo all’evento, sappiamo lottare leoninamente con il fisco, duellare con il padrone di casa, fare a botte con la banca, querelare ogni dentista per una carie male otturata, ma di fronte alla figlia in lacrime ogni resistenza è futile, come diceva un telefim di fantascienza.
Per chi può permettersi di spendere queste fortune, il prezzo, pur doloroso e insensato, è sopportabile. Ma se il costo medio di un matrimonio, non importa se civile o religioso, se celebrato davanti a un predicatore della Chiesa del MisticoCacciavite o a un funzionario del Comune, si avvicina ai 30 mila dollari e il reddito medio negli Stati Uniti è di 44 mila dollari, non occore un Nobel dell’economia per capire che i genitori della sposa non possono staccare un assegno e poi chiudersi in bagno a piangere.
Occorre chiedere un prestito, e nell’85% dei casi il prestito viene da una seconda, se non terza, ipoteca sulla abitazione: per gettare il seme di una nuova casa, i genitori della sposa sono costretti ad amputarsi pezzi della propria, in un ciclo continuo di indebitamento che periodicamente – sorpresa sorpresa – collassa come la proverbiale piramide di carte da gioco. O come il matrimonio stesso, statisticamente destinato, con altissima probabilità , verso quella che in gergo viene chiamata Splitville, la città  dello “split”, della separazione e del divorzio.
Dunque non solo approfitto delle ultime statistiche sulla ripresa vigorosa delle spese matrimoniali in America per aggiungere i miei auguri a questa nuova coppia formata da una mia omonima (a parte quale marginale differenza) Vittoria e dal marito Thomas, disceso dalle amate montagne tirolesi per vivere nella Pianura Padana (ma non in Padania, che non esiste e gli farebbe orrore). Li voglio ringraziare per avere dimostrato che ci si può sposare elegantemente e giosamente anche senza dilapidare i risparmi della famiglia della sposa. E conforta sapere che, semmai dovessero affrontare tempi difficili, potranno sempre vivere di cetrioli in salamoia per i prossimi 20 anni.

Ai figli dei ricchi è meglio non far sapere

di Vittorio Zucconi

La risposta fu brutale, ma vaga. “Papà – osai un giorno chiedere a mio padre – quanto guadagni?”. Guadagno abbastanza per mantenere un asino come te e quei buoni a nulla dei tuoi fratelli e sorelle. L’inchiesta sulle finanze di famiglia finì a quel punto senza mai più ripetersi, lasciando traumi gravi nella psiche di quel bambino che ne ebbe la vita rovinata al punto di ridursi a fare il giornalista. Gli altri tre buoni a nulla (lui per la verità usò un’espressione più vivace) non posero mai la stessa domanda e infatti avrebbero praticato più tardi professioni più onorevoli.
Ma la domanda rimane, in ogni famiglia. È giusto che i figli sappiano come siano le finanze di casa, quanto guadagnino i genitori, quali siano le eventuali proprietà, i debiti, i mutui, il “cash flow” come dicono gli esperti, cioè la differenza fra il rigagnolo di soldi che entrano e il fiume che esce? A quale età devono sapere che il borsellino della mamma non è un pozzo senza fondo, dal quale affiorano magicamente abiti e telefonini, paghette e motorini, vacanze e giocattoli, dietro semplice richiesta o piagnisteo?
Come in tutto quel che riguarda la vita famigliare e l’educazione dei figli, non esistono protocolli clinici o semplici “bugiardini” che indichino la posologia, gli effetti desiderati e quelli indesiderati. Soprattutto per chi combatte battaglie quotidiane e spesso perdenti con entrate e uscite, può essere molto doloroso ammettere che quel papà, quella mamma che fino a una certa età ci sembrano onnipotenti e onniscienti, non sono in grado di soddisfare i capricci e a volte neppure le necessità di figli ai quali confessare che semplicemente non ci sono soldi in casa. La mancanza di danaro resta la prima causa di divorzio, molto più di incompatibilità, disamore o tradimenti, negli Stati Uniti. Arrangiatevi.
Ma poiché c’è sempre qualcuno disposto a correre in soccorso dei ricchi e dare a loro opportuni consigli, potremmo ascoltare quello che i consulenti suggeriscono ai milionari, anche per divertirci – se divertimento è – a scoprire un genere di problemi che non avremo: a che età si deve dire ai ragazzi che sono ricchi?
Molti di loro, anche se non particolarmente svegli, lo capiscono da soli. Se per il tuo sedicesimo compleanno, per esempio, anzichè un disperato clown che fa i palloncini a forma di cane o lo zio che si atteggia a mago, ti arriva a casa Elton John per cantarti Happy Birthday come alla figlia di Bernie Ecclestone, magari il dubbio di essere molto ricca può venire. Se a nove anni di età la mamma Indiana ti regala una Ferrari 430, non quelle in pressofusione scala 1:18, ma una vera e te la lascia guidare e sfasciare, anche se non sei un genio precoce, magari lo intuisci. E quando babbino affitta per te l’intera Disneyland per tre giorni al costo di 20 milioni di dollari per il compleanno, come il principe Saudita Fahd al Saud, il sospetto che la famiglia non viva di assistenza sociale deve venire.
Ai più tonti, il banchiere Keith Banks (a volte, i nomi…), presidente della finanziaria principale che si occupa di gestire ricchezze, la U.S. Trust Bank, raccomanda il compimento del ventesimo anno, come la data giusta per rivelare non che siano ricchi, cosa che a quel punto i rampolli dovrebbero avere capito, ma quanto lo siano. La metà dei multi milionari o miliardari indicano invece i 25 anni, come età giusta per rivelare quanto enorme sia il tesoro di famiglia e come amministrarlo, per evitare la nota maledizione in base alla quale “la prima generazione fa i soldi, la seconda li mantiene e la terza li perde”.
Un 25% invece preferisce non dirlo mai, aspettando che sia l’avvocato a leggere il testamento e magari a rivelare al figlio sbigottito che papà gli ha lasciato soltanto la collezione di farfalle, non esistendo negli Usa la “legittima”.
Drammi che – almeno questi – non ci sconvolgono. Al massimo, possiamo provare l’emozione di accompagnare i figli sulla più alta torre del paese, cingere le loro spalle affettuosamente, e con delicatezza indicare il panorama e dire loro: cari ragazzi, sappiate che un giorno niente di questo sarà vostro.

Confesso che ho perduto l’onore per un chiodino

di Vittorio Zucconi

Era soltanto un chiodo, anzi un chiodino, uno di quelli piccolissimi che si stringono a fatica tra il pollice e l’indice e garantiscono la martellata sul ditone. Me ne serviva uno, uno solo, per appendere uno di quei quadretti fatti dai bambini con le figure spiritate e le mani come zampe di gallina nei quali padri e madri devono riconoscere indizi di futuri Picasso. Dentro il grande secchio di plastica nel negozio di ferramenta ce ne saranno state decine di migliaia, forse milioni, e non seppi resistere. Anziché usare la apposita paletta per versarne un po’ nelle bustine di carta, pesarli – perché si vendevano a peso – e pagari alla cassa, me ne misi uno in tasca e uscii senza pagare. Sono passati anni da quel giorno, il ferramenta è ancora lì e quel chiodinio microscopico mi pesa in tasca come un’incudine.
Da allora appartengo anche io a una delle categorie più numerose e in crescita, negli Stati Uniti e nel mondo: gli shoplifter, i topi di negozio. Ci sono almeno 25 milioni di persone che non resistono alla tentazione di sfidare le telecamere nascoste, i detector alle uscite, i sorveglianti travestiti da clienti, e pizzicano qualcosa nei grandi magazzini, nei supermercati, nei negozi. Quasi 10 milioni, più dell’intera popolazione di New York, sono arrestati ogni anno, umiliati, denunciati e condannati a pene a volte anche piuttosto lunghe.
Leggenda vuole che siano i tempi duri, la disoccupazione, la fame a spingere persone oneste a indossare due paia di calzoni o due gonne nella sala prova, a inguattare frutta o buste di insaccati sotto i vestiti, ma non è così. L’aumento dei furti nei negozi c’è, ma è una piccola frazione rispetto all’esercito delle due categorie più micidiali di “topi da supermercato”.
Sono i dipendenti stessi e i booster, come si chiamano nel gergo i professionisti. Venti dei trenta miliardi di dollari rubati ogni anno sono opera loro. Fanno 85 milioni al giorno, circa 60 milioni di euro ogni 24 ore, una cifra che umilierebbe anche il tesoriere di partito più ingordo.
I dipendenti sono responsabili della metà dei furti in esercizi commerciali e in ristoranti, ma sono anche i più facili da individuare. I booster sono invece ladri professionisti, organizzati e retribuiti da gang specializzate che li sparpagliano negli shopping center dopo averli dotati di speciali sacchetti a prova di allarme. Sono normali sacchetti con i marchi del prodotto o del negozio, ma foderati in modo da non far scattare quei suoni che si alzano quando inavvertitamente usciamo senza aver smagnetizzato il prodotto.
La refurtiva, composta di banalissime cose come lamette, shampoo, creme varie, smalti, rossetti, medicinali da banco, pettinini, sarà acquistata da ricettatori all’ingrosso e poi rivenduta, a una frazione del costo ufficiale, in mercatini delle pulci, banchetti, e naturalemente via Internet. I margini di risparmio, per chi compra, e di guadagno per chi vende, sono enormi e senza i rischi che il traffico di stupefacenti comportano. In Florida, lo sceriffo della Contea di Dade ha scoperto un capannone dove era accatastata merce boosted, sfilata ai drugstore di Miami, per 150 milioni di dollari.
Naturalmente le vere vittime dei furti non sono l’ipercentro, il supermarket, il ristorante di lusso. Le vittime sono gli altri clienti che pagano. Se i furti tolgono il 5 per cento al profitto, quel 5 per cento sarà ricaricato su chi paga.
Non so dire chi abbia pagato per quel chiodino che quasi 30 anni or sono rubai a un ferramenta di Washington chiamato Strohsnider (ecco, mi sono autodenunciato e già sento avvicinarsi le sirene della polizia). Ma una cosa potrò dire al giudice quando mi chiamerà pagare per il reato e per gli interessi di mora sul chiodino maturati in decenni.
Il chiodino, minuscolo com’era, dovette infilarsi in una scucitura della tasca, scorrere giù per i calzoni, probabilmente finire a terra, nella mia andatura ansiosa di ladro in fuga. Per quanto rivoltassi e scuotessi le brache, esaminassi i risvolti e le tasche, il chiodino del reato non saltò mai fuori. Il crimine, come si vede, alla fine non paga. Mi appello alla clemenza della Corte.

Baby stranieri che rendono l’America alla lettera

di Vittorio Zucconi

Animia”, tuona la voce di Dio e la bambina sul palcoscenico trema. Può ripetere? “Animia”, ripete con sinistra pazienza la voce incorporea. “Animia….animia…”, mormora la bambina deglutendo e bagnandosi le labbra e poi si butta: “A-N-E-M-I-A”. Ha! Sbagliato! Sentenzia l’onnipotente con un’ombra di sadica soddisfazione. La bambina è caduta nella trappola che lui le aveva aperto sotto i piedi, ha confuso una rarissima condizione neurologica, la “animia”, con la ben più conosciuta e banale “anemia”.
Con l’ombra di un singhiozzo in gola, la sconfitta corre dietro le quinte, per chiedere conforto proprio a quei genitori aguzzini che le hanno inflitto ore e ore quotidiane di vocabolario a memoria, nella speranze di sopravvivere a quella tortura annuale e legalizzata che è il concorso nazionale di “spelling”. La gara per scoprire chi, fra bambini e bambine riesca a compitare correttamente parole astruse, che non useranno mai nella loro vita di adulti.
È un calvario annuale che mi riporta al giorno nel quale mia figlia, scelta come “campionessa” dalla sua scuola media, fu iscritta a una finale regionale e la vinse pure, parola dopo parola, mentre il padre e la madre soffriggevano a fuoco sulla sedia. Appena finì di sillabare correttamente l’ultima parola, “autochtonous”, la ragazzina marciò via dal palcoscenico e dichiarò con occhi di fuoco (presi dalla mamma): “Mai più”. E mai più fu. Anche se avesse vinto i 30 mila dollari della borsa finale, sarebbe rimasta orfana di padre stroncato da infarto del miocardio.
Sono decine di migliaia, invece, le famiglie che sottopongono i propri virgulti al tormento di apprendere meccanicamente parole mai sentite. Non per i soldi – 30 mila dollari, 24 mila euro circa sono una saporita sommetta, ma non cambiano la vita – per l’orgoglio, per l’ambizione genitoriale. Soprattutto, per il desiderio di mostrarsi migliori della gente che li ha accolti.
Sono ormai esclusivamente bambini e bambine di origine straniera a vincere il concorso nazionale di spelling. In questo 2013, ha vinto Arvind Mahankali, che ha azzeccato tutte le lettere della parola “knaidel”. Facilissima, per un bambino ebreo cresciuto in una famiglia dove si parli lo yiddish e si consumino questi involtini chiamati appunto knaidel, ma non per un tredicenne indiano cresciuto a Queens. Forma di giustizia poetica per lui, che nel 2011 e 2012 era stato eliminato su due atroci parole tedesche, “Schwannoma”, un tipo di tumore (ci mise una “n” di meno, e “Jugendstil”, uno stile artistico, tradito da una “y” che non c’era).
Lo spelling, nella lingua inglese, è una trappola, come sa chi cerchi di impararlo e pronuncrialo. Le stesse lettere si pronunciano in modo diverso. “Bush”, cespuglio, conserva la “u” e a volte diventa anche Presidente, ma in “rush”, affrettare, la “u” diventa simile alla “a”. In più,contro questi sventurati adolescenti vengono sparate espressioni di lingue straniere assorbite e riconosciute nel grande ventre onnivoro dell’uso accettato.
Cadono come mosche su parole di musicologia italiana come “appoggiatura”, la tecnica per far vibrare le note, su mostruosità di biologia marina quali “cyanophycean”, un’alga verde blu, su lontane allusioni storiche come “sanculottic”, o “panjandrum”, una superbomba sperimentata dagli inglesi nella Seconda Guerra. E magari tracollano poi su “cipollino”, pronunciato con una sola “l”, nonostante la proliferazione virale degli show di cucina. Giusto castigo per americani che non riescono a dire (o a cucinare) un risotto, sempre “rissoto”.
Otto degli ultimi dieci vincitori sono stati figli di immigrati indiani, e quattro degli ultimi cinque erano bambine, forse a conferma della schiacciante superiorità delle femmine in materia di linguaggio, come ogni marito o fidanzato distrutto dopo una discussione può attestare.
Di questo, ormai da quando la mia bambina scampò a una eliminatoria, posso leggere, possono scrivere, ma non posso più guardare, perché aborro ogni forma di tortura. Il giorno in cui ascolterò un giudice chiedere a un bambino lo spelling di “Supercalifragilisticexpialidocious” telefono a Mary Poppins e li denuncio alla Corte dell’Aja.

Cosa imparano alla domenica i bambini d’America

di Vittorio Zucconi

Abbiamo letto tutti, o quasi, le striscie di Peanuts e Il giovane Holden di Salinger, il cui titolo originale era “Il catcher nella segale”. Nella dolce malinconia di Charlie Brown e della sua banda, come nella desolazione di Holden, abbiamo conosciuto un mondo americano.
In quell’America, dopo anni di residenza un po’ distaccata, sono entrato a piedi giunti, come ci si tuffa in piscina, da quando i più piccoli della famiglia sono stati risucchiati dal gorgo inevitabile e universale dello sport di squadra per bambini. Ogni week end, specialmente quando la stagione lo permette, dopo giorni di allenamenti meticolosi, tre milioni di bambini e bambine indossano l’anacronistica, tradizionale uniforme del baseball con le brache lunghe, e cercano, con scarso successo, di colpire la palla o di afferrarla.
Per ogni bambino ci sono almeno due parenti attorno a ogni “diamante”, come si chiama il campo, dunque 10 milioni di americani che celebrano il rito del gioco che fu di Joe DiMaggio, marito di Marilyn Monroe, se non lo avete mai sentito nominare. Su altri campi, a noi più famigliari, tre milioni di loro coetanei infilano le scarpe con i tacchetti e rincorrono un pallone, spesso con gli stessi risultati di padroni che rincorrono cani riottosi. Di nuovo, altri dieci o quindici milioni di adulti li guardano, li incitano, li incoraggiano, li allenano, dalla California alla Virginia. E non ho lo spazio per elencare tutti gli altri sport, come basket, lacrosse, pallavolo, nuoto, football, rugby che mobilitano altri milioni. A Oklahoma City, dopo la mazzata del tornado, la prima cosa che ha ripreso vita sono state le “Little League” sportive per piccini. Il catcher tra le rovine.
È una nazione di bambini, seguita da un’altra nazione di adulti, che sciama per tutti gli 8 milioni di km quadrati degli Usa continentali (l’Italia, per dare un’idea, è 300 mila km quadrati) impugnando attrezzi e indossando uniformi. In una mobilitazione tanto organizzata quando pacifica, ma anche un po’ premilitare, un’armata di adulti, senza prendere un cent, si trasforma in arbitri, allenatori, massaggiatori, ufficiali di gara, organizzatori. Attorno a quei campetti, si addensa la passione di genitori in una cacofonia di lingue che vanno dal patois haitiano al russo, dal mandarino all’inglese e soprattutto alla spagnolo attorno ai rettangoli del calcio. Diventano fabbriche di gioie fulminanti e di delusioni brucianti nella lacrime che ancora, a quell’età, sgorgano copiose quando il piccolo Joe Di Maggio si becca una pallinata sulla caviglia o il MiniMessi incespica sul pallone solo davanti alla porta vuota. E sbaglia quel gol al quale padri e madri affidavano la speranza che un giorno quel bambino potesse essere ingaggiato da un’Università per studiare senza pagare la retta, che loro non si potranno mai permettere. Ma tutti, vincitori e vinti, schiappette e campioncine imparano, su quei campi, a rispettare i regolamenti e a seguire le istruzioni, se vogliono giocare.
Una “strip” di Charles Schulz mi torna invariabilente alla memoria: Linus racconta a Charlie di una vittoria straordinaria. “Eravamo sotto, mancavano pochi secondi – ansima il bambino con la coperta – quando uno di loro perde la palla, noi la raccogliamo, corriamo, il cronometro scandisce i secondi e alla fine è goal, vittoria. Eravamo al settimo cielo”. “E gli altri come si sentivano?”, gli chiede gelido Charlie.
Ho assistito alla finale di un torneo di calcio vinto dalla squadra di uno dei miei nipoti (lo sapevete che sarebbe arrivato inevitabilmente, coraggio) ai tempi supplementari, con un suo gol casuale dopo una partita dominata dagli avverari. Il rinvio di un difensore gli colpisce il ginocchio e rimbalza in porta. Fischio, fine.Tripudio, trionfo, bambini che corrono inseguiti da parenti in estasi e da nonni apoplettici. E sparsi per il campo, recisi dal magone, bambini esattamente come loro, accasciati nell’erba in lacrime inconsolabili.
Ogni week end milioni e milioni di americanini assaggiano la crudele verità con la quale dovranno misurarsi da adulti: la vita è una cosa profondamente ingiusta. Non possono vincere tutti. Ma ci si dovrebbe almeno ricordare di come si sente chi perde.

Che sfortuna sbancare la maledetta lotteria

di Vittorio Zucconi

La sera di sabato 18 maggio qualcuno, in Florida, si è trovato in tasca 590 miloni e 500 mila dollari, qualcosa come 460 milioni di Euro. È stato il jackpot, la posta più ricca nella storia delle lotteria. Chi sia questa persona, mentre scrivo ancora non so, ma una cosa so: mi fa molta pena e tremo per lui o per lei.
Già sento le grida di incredulità, e forse qualche garbato insulto, subito seguite da un rosario di quello che si potrebbe fare vincendo 460 milioni di euro: debiti pagati, desideri esauditi, famiglie felici, parenti gratificati, futuro garantito, gesti munifici di beneficenza. Il tutto coronato dalla ciliegina succosa dell’addio definitivo all’odiato direttore o padrone o insopportabile collega: prenditi il tuo miserabile lavoro e mettitelo in tasca.
È quello che pensò Billy Bob Harret, quando lo Stato del Michigan gli staccò un assegno da 31 milioni nel ’99. Profondamente religioso, Billy Bob considerò quella vagonata di soldi come un segno della Provvidenza e cercò di distriburli a persone bisognose, chiese, associazioni caritatevoli. Ne fu spolpato come un insetto assalito dalla formiche. Si chiuse in una stanza e si sparò al cuore.
Jeffrey Dampler, professione operatore sanitario, non lasciò neppure il lavoro a Chicago, quando vinse 20 milioni. Comprò casa alla mamma, aiutò i fratelli, investì saggiamente quello che restava, preparando il matrimonio con l’amata che per ragioni di danaro aveva sempre rimandato. Il suo cadavere fu trovato, atroce ironia, in una discarica. L’amata, che in realtà amava un altro, lo aveva fatto fuori.
Furono addirittura 315 i milioni vinti da Andrew Wittaker in West Virginia nel 2003, un record per il tempo. Fece una larghissima donazione al club preferito di stripper e forse quel suo patronato leggermente peccaminoso lo punì. Nell’arco di due anni perse la moglie, la figlia, la nipote uccise tutte da overdose di droga. Da allora è diventato uno degli apostoli della “Maledizione della Lotteria”.
Sono talmente tanti i casi di vincitori di grosse cifre colpiti dalla “Maledizione della Lotteria”, che hanno riempito libri. Don MacNay, autore di una ricerca ventennale sull’argomento, ha documentato una cifra che si faticherebbe ad accettare se non fosse verificata: il 90% dei vincitori di grosse somme, oltre il milione di dollari, di quelle che dovrebbero cambiare la vita in meglio, sono, tre anni dopo il colpo, o senza soldi, o infelici o morti, per suicidio o per omicidio. La frase più frequente che MacNay ha raccolto intervistando i vincitori (ancora vivi) è stata: “Se avessi saputo che cosa quel tagliando avrebbe fatto alla mia vita, lo avrei stracciato”.
Non solo le lotterie sono, come i governi sanno da secoli, una tassa sulla stupidità umana, creata per fare cassa scommettendo sull’ingenuità disperata di chi crede ai sogni e ai numeri del bisnonno defunto (per pagare quei 460 milioni di euro allo sfortunato vincitore in Florida, il fisco ha incamerato il doppio, un miliardo, perchè soltanto un terzo dei soldi pagati per giocare viene rimesso in palio: se i politici, odiati anche qui, avessero imposto nuove tasse per un miliardo, i villici con i forconi avrebbero marciato sui palazzi del governo). In più, quel tagliando con i numeri magici – 10, 13, 14, 22, 52, 11 quelli del 18 maggio – è un biglietto di sola andata per una vita di inferno nella quale precipitano nove sfortunati su dieci.
Naturalmente, io non farei la stessa fine, io non sono così ingenuo, incosciente, o debole. Se vincessi dieci o cento milioni saprei bene come amministrarli, come farli durare, come farne buon uso, io.
È esattamente quello che pensava Shakespeare, non quello autore dell’Amleto, ma il signor Abraham che nel 2009 azzeccò, sempre in Florida, la combinazione giusta, vincendo 30 milioni di dollari. Invece di maneggiarli lui, inesperto carpentiere, li affidò a una consulente finanzaria certificata e raccomandata, Dee Dee Moore, che li investì con successo. Un anno dopo, Abraham Shakespeare fu trovato sepolto in giardino sotto una colata di cemento. Dee Dee Moore, la consulente, è stata condannata all’ergastolo per l’omicidio.

Se il mostro abita nella villetta accanto

di Vittorio Zucconi

La prima sera nella nostra nuova casa di Washington, smarriti fra trincee di scatoloni, qualcuno suonò alla porta. Una signora rotondetta e sorridente ci allungò un piatto da portata coperto di alluminio. Disse soltanto: “Benvenuti nel quartiere, sono Nancy e sono la vostra vicina di casa. Questo è un prosciutto cotto al forno e ho pensato che potesse evitarvi il problema di cucinare. Un regalo di buon vicinato. Se avete bisogno di qualunque cosa, abito lì”, e indicò la porta della villetta accanto.
Era la moglie di un dentista, al cui trapano avrei nel corso degli anni restituito più volte il valore di quel prosciutto, ma non era venuta per acchiappare un paziente in più. L’aveva mossa quello “spirito di vicinato” che ancora, come nei villaggi dei Pellegrini o dei pionieri nel West quando tutti dovevano aiutarsi per sopravvivere (magari prima di spararsi addosso) resisteva e che colpiva noi cresciuti nella convinzione che “il vicino” sia generalmente un rompiballe.
In decenni di traslochi e salti di continenti, mai mi era capitato di essere cibato spontaneamente dalla sconosciuta della porta accanto. Ma di quella signora, del marito dentista, come della coppia di medici che abitano all’altro lato della casa o del colonnello d’aviazione pensionato che mi sta di fronte allora non sapevo, e ancora non so, nulla. Dietro la facciata cortese, i sorrisi da lontano, le due chiacchiere scambiate, per quello che ne so nella loro cantina potrebbero vivere donne incatenate. O in soffita essere conservati resti di parenti mummificati, come la mamma di Anthony Perkins in Psycho.
Conosciamo davvero i vicini?
La risposta, che il caso mostruoso dei Castro a Cleveland, quelli che avevano rapito e torturato ragazzine per anni nel sottoscala ha reso terrificante, è: “no”. I Castro non erano targati “MOSTRO”. I vicini nel loro modesto quartiere di piccola classe media li incontravano tutti i giorni. Li salutavano. Chiacchieravano di sport o di pioggia. Hallo e goodbye.
Conosciamo tutti quelle inutili dichiarazioni raccolte dai Tg nei casi dei delitti più feroci. “Una coppia tranquilla”. “Un signore educato”. “Gente normale”. Mai uno che dica davanti alla telecamere: “Mi pareva un demente”. “Lei era una belva”. Mai.
Non sono testimoni idioti o bugiardi. Sono soltanto la manifestazione di qualcosa che persino nell’America dello “spirito di quartiere” sta accadendo: è la “solitudine della porta accanto” il crescente isolamento nel quale tutti viviamo, sprofondati nelle finte comunità virtuali della Rete, nella luce azzurrognola del televisore, negli affaracci e guai nostri.
Il test è in un semplice rituale: il barbecue. Attorno alla griglia sistemata nel cortile di una casa, il “paterfamilias” di corvèe ustionava a turno bistecche, hamburger e salsicce per tutti e il quartiere consumava colesterolo a secchi e senso di appartenza e di comuntà. I bambini a litigare, i teen agers a fiutarsi, i mariti a discutere di sport (mai di politica, per evitare screzi terminali) le moglie a parlar male dei mariti.
Un censimento nazionale condotto nel 1974 osservò che la metà delle famiglie trascorreva due serate al mese socializzando con il vicinato. Nel 2008, il numero si era dimezzato. Il senso del quartiere, della “vicinanza” come la chiamavano gli emigrati italiani nei loro ghetti, si va disperdendo, come l’odore del barbecue nella sera.
Puoi fabbricare bombe in casa tua, come i fratelli Tsaraev a Boston, senza che nessuno se ne accorga. Puoi tenere tre ragazze per sette anni chiuse in cantina, violentarle, farle abortire, e i vicini non ne avranno sospetto. Good morning America.
Quella rete di controllo sociale, che era tanto utile quanto fastidiosa (stare al passo coi vicini tagliando l’erba sempre meno verde e comperando l’auto nuova) si è smagliata. Viviamo in piccoli castelli, con sempre più ponti levatoi elettronici, allarmi, fotocellule, sensori, quando non armi da fuoco nei cassetti.
Non credo che oggi, 25 anni dopo quella sera, Nancy la moglie del dentista oserebbe suonare alla porta di sconosciuti appena piovuti nel quartiere reggendo un prosciutto. Avrebbe timore di fare, lei, la fine del prosciutto.

La stanza dei giocattoli sbagliati

di Vittorio Zucconi

Il mio primo ricordo è il padre che entra nell’appartamento al piano terreno di una villetta a Modena trascinando, un po’ curvo, una biciclettina con le rotelle. Avevo quattro anni. L’età alla quale Kristian ha ricevuto per il compleanno il suo primo, vero fucile e ha ucciso la sorella di due anni, Stephanie.
Quando la notizia di questa tragedia è uscita dalle cronache locali della Contea di Cumberland, nel Tennessee più rurale, un brivido di orrore, e poi di sbigottimento, ha percorso il mondo intero. Ne hanno scritto e narrato tutti i media, dal Giappone alla Lituania, facendosi le stesse, eterne, inutili domande che ci facciamo in questi casi. Come è possibile produrre fucili in miniatura disponbili anche in rosa per per femminucce, ma capaci di sparare proiettili veri calibro 22, piccoli, e perfettamente letali nelle brevi distanze? Quale azienda di dementi, quale nazione abbagliata dal culto delle armi possono mettere un attrezzo concepito per nessun altro scopo che sia quello di uccidere, nelle mani di bambini che hanno appena imparato a fare la pipì nel vaso e a portare la forchetta in bocca anziché ficcarla negli occhi (loro o degli altri)?
Ma io non riuscivo a non ripensare alla mia prima bicicletta con le rotelline nella villetta alla periferia di Modena e all’emozione che quel regalo avrebbe impresso per sessant’anni nella mia memoria.
Io pensavo a Kristian che a cinque anni ha ucciso la sorella in cucina, mentre la madre sciacquava i piatti, per sbaglio, per caso, forse per gioco, perché quel fucile chiamato Crickett, un po’ come cricket il grillo, un po’ come Crockett l’eroe del folklore americano, per lui era un giocattolo come la bici per me.
Gli psicologi dell’infanza discutono molto sull’età della memoria e non ci sono certezze assolute. Si legge in varie ricerche e studi che il tempo nel quale un’immagine, un evento, una persona si stampano nei circuiti del ricordi, varia. Che addirittura possa dipendere dalla cultura e dalla società nella quali cresciamo: due psicologi canadesi, nazione nella quale vivono molti immigrati dall’Asia, hanno scritto pochi mesi or sono che i bambini di cultura occidentale abbiano memorie infantili pìù lontane dei bambini di cultura orientale, forse per il diverso rapporto con i genitori, ma sono teorie.
Potrà mai, Kristian del Tennessee, dimenticare quello che ha fatto? Scenderà mai su di lui, bambino innocente trasformato in omicida per gioco, la benedizione dell’amnesia infantile, quella che cancella tanta parte dei nostri primi ricordi belli o brutti, come la spugna sulla lavagna, o come il tasto “canc” del computer se vogliamo essere più tecno?
Certamente, no. Non glielo permetteranno i genitori, i parenti, che forse non subito, ma certamente un giorno, lo porteranno sulla tomba di Stephanie. Resteranno tracce nella sua vita, o nei discorsi di grandi, di quella bambina di due anni che non c’è più. E se anche i conoscenti, le maestre, gli adulti in quella piccola comunità rurale cercassero di tessergli attorno una tela di silenziosa omertà e di bugie, spiegando la scomparsa della sorella più piccola con vaghi accenni a “incidenti”, a “disgrazie”, non mancheranno i compagni più grandi che a scuola diranno di lui: è quello che ha ammazzato la sorella.
Dovrebbe cambiare contea, Stato, essere portato lontano dalla casetta mobile di legno nella quale era nato e aveva sparato alla sorella, ammesso che il padre e le madre trovino di che vivere in un altro pezzo d’America.
Eppure non riesco a immaginare che nell’angolo della sua memoria, in qualche fondo dei suoi sogni e dei suoi pensieri, non dormano quei momenti pronti a risvegliarsi, il ditino che schiaccia il grilletto, il lampo della cordite che spara la pallottola, il rinculo dell’arma, la chiazza di sangue sul linoleum della cucina, le grida della madre, l’arrivo inutile delle sirene. E lui che probabilmente piange, lascia cadere lo schioppetto e dice non volevo, giocavo, giocavo. Due vite di bambini, una nel corpo, l’altra nello spirito, distrutte da un solo, piccolo proiettile calibro 22.
Se soltanto gli avessero regalato una bicicletta, anziché un fucile.

Lo sfruttatore che firmava sulla pelle la sua condanna

di Vittorio Zucconi

Alex Campbell leggeva molto la bibbia. Non proprio quel libro che i predicatori da tv citano a memoria promettendo miracoli, ma una bibba molto particolare, più breve e pratica. Le sue vittime la conoscevano come The Pimp’s Bible, il testo sacro del magnaccia.
Alle donne che Alex convertiva alla propria spietata fede, i passaggi essenziali di quel testo erano addirittura tatuati sul corpo, per esteso. Sarah – ancora anomima perché oggi è sposata e madre di due gemelle – ha la schiena interamente coperta dai versetti di quella bibbia empia, dal collo al sedere, e dovrebbe consumare anni e soldi che non ha, per cancellarli riga per riga.
Le tavole della legge erano elementari e si potevano riassumere in un verbo solo: pagare. O essere ferite, sfigurate, in alcuni casi – ma raramente perché ad Alex non piaceva perdere pezzi della proprio gregge – uccise. Quattordicimila dollari erano il prezzo per una carta verde, il permesso di soggiorno, altri cinquemila perché sì, così voleva la sua legge. Bastava che loro non gli telefonassero ogni due giorni per dargli la contabilità e la percentuale degli incassi perché scattasse la multa. Una sorta di studio di settore da piantagione di schiavi.
“… Mi stai dicendo che ti devo dare cinque mila perché non ti ho telefonato?”, si sente dire la voce di una donna nell’intercettazione telefonica ordinata dalla Procura di Chicago, il suo regno.
“… Ti dico che me li devi pagare e me li pagherai…” risponde Alex.
“…. Sì, mi ricordo, me lo avevi detto…”.
“… Ecco… e sei anche fortunata perché ti dò fino alla prossima fottuta domenica per farlo… e se non mi porti almeno 500 fottuti dollari subito ti faccio una fottuta guerra e rimpiangerai il fottuto giorno in cui sei nata…”, seguono alcune altre formule e frasi che vi risparmio.
Quasi tutte pagavano, magari a rate, a piccoli versamenti, perché quelle donne avevano soltato due alternative al pagamento: essere denunciate all’immigrazione come clandestine, e quindi rispedite al paese di origine, o essere picchiate e sfregiate dal pimp, dal magnaccia.
La solita storia, la solita prassi classica della tratta di donne. Erano tutte giovani immigrate senza documenti, o con visti scaduti, che il benefico Alex prendeva sotto la sua protezione, con delicatezza iniziale. Attraverso la sua rete potente di complicità ben pagate, trovava un lavoro legittimo, ma precario per la mancanza di documenti che metteva in difficoltà tanto lei che il datore di lavoro.
Sarah, quella con il vangelo dell’aguzzino tatuato sulla schiena, aveva cominciato come massaggiatrice in un salone di bellezza, per 200 dollari alla settimana, naturalmente senza assicurazione sanitaria, versamenti previdenziali o altro.
Dopo qualche mese, arrivavano a scadenza le prime cambiali di tanta generosità. Alex, che spesso si travestiva da “boyfriend”, da amico e fidanzato di queste donne sole e convinte dalla sua premura, si trasformava e chiedeva a queste donne pagamenti che il loro salario non poteva coprire. Dunque, per onorare le richieste, dovevano passare alla prostituzione. Non prima del tatuaggio, che non serviva certamente a loro, che non potevano leggere il testo sulla schiena, ma agli altri e alle altre, per segnalare che quella ragazza era proprietà sua. Come un contratto firmato sulla e con la pelle.
Talmente certo era del proprio potere, che questo schiavista di Chicago, che neppure si rendeva conto di firmare, con quella bibbia tatuata, la propria condanna. Quando alcune delle sue vittime – quattro – hanno deciso di parlare e di testimoniare al processo, le loro parole, le intercettazioni telefoniche (quelle che “in America non fanno”, come dicono i bugiardi in Italia) e la firma sulle schiene, non potevano lasciare ad Alex Campbell una scappatoia.
È stato il primo pimp nella storia della giustizia americana, il primo sfruttatore di donne a essere condannato all’ergastolo senza possibilità di libertà sulla parola.
Avrà tutto il resto della sua vita per leggere la Bibbia, quella vera.

Dalla Cina a Boston appuntamento con il destino

di Vittorio Zucconi

Lu Lingzi era una ragazza molto fortunata. Quando i suoi nonni avevano lasciato le campagne crudeli della Manciuria per cercare fortuna nella città di Shenyang negli anni 30, erano riusciti a trovare lavoro in una delle mostruose acciaierie create dagli occupanti giapponesi per il proprio esercito e sopravvivere alle periodiche carestie. Lavoro da schiavi, ma abbastanza per creare una famiglia e per riempire le ciotole dei figli. Quando Lu nacque, nel 1990, tutte le industrie pesanti di quella enorme città fabbrica di quattro milioni di abitanti stavano chiudendo, gli altoforni non più alimentati dalle palate di soldi pubblici, ma i suoi erano riusciti a scampare al massacro sociale, trovando un angoletto nelle prime aziende straniere.
Era una bambina intelligente e puntigliosa. Il maestro della scuola naturalmente di Stato e poi i professori nelle superiori la segnalarono – in Cina tutto si segnala – alle autorità. Era soprattutto bravissima in matematica, la disciplina più apprezzata oggi, per formare quelle legioni di ingegneri, ricercatori, scienziati necessari per alimentare la crescita. Prima della classe, al momento del diploma, ricevette l’invito a iscriversi nel Politecnico di Bejing, la capitale. Naturalmente accettò. Nel 2008 lasciò per la prima volta nella sua vita Shenyang per salire sul treno che l’avrebbe portata nella nuova città, 640 chilometri.
Si laureò in Statistica ottava nella sua classe di nove mila studenti e il rettorato la mandò a chiamare con una proposta che la sconvolse. Nell’ultimo anno di università Lu aveva lavorato come stagista non pagata negli uffici pechinesi della Deloitte Touche, una delle massime multinazionali americane della contabilità e imparato l’inglese. Ora lo Stato le offriva una borsa di studio completa, dal biglietto aereo, al soggiorno, a un piccolo stipendio più naturalemente la retta per continuare gli studi in America, alla Boston University. Centomila dollari e due anni per un Master in scienze attuariali, quella specialità della statistica che studia le probabilità. È usata da compagnie di assicurazione, grandi finanziarie e governi per stabilire i premi, i rischi, l’equilibrio dei bilanci previdenziali e pensionistici.
Lu ripassò da Shenyang per salutare i genitori, stravolti dall’orgoglio e dal pensiero che per due anni non avrebbe più rivisto la loro bambins e poi decollò per coprire gli 11 mila chilometri di distanza per Boston.
La mattina di lunedì 15 aprile 2013, Lu era felice. Ancora un mese, per gli ultimi adempimenti e sarebbe tornata a casa. Due giorni prima, venerdì, la sua dissertazione era stata approvata e accettata dalla facoltà. Con il massimo della valutazione.
Con la sua faccetta sorridente aveva infestato i social network ostentando la ciotolina blu che si era portata da casa, colma di un porridge di riso e di frutta fresca che aveva consumato come breakfast. “La mia colazione preferita!” aveva cinguettato e poi era corsa per andare a prendere posto negli ultimi metri della Maratona di Boston. Due amiche – ci sono 200 mila studenti cinesi negli Usa e 15 mila soltanto nel Massachusetts – partecipavano. Si concesse un’altra delle sue passioni, un gelato di cioccolata da Ben & Jerry, una catena, e ancora con il suo gelato in mano si infilò, piccola com’era, tra i più grossi fino alla prima fila.
Alle 15 e 45 la prima bomba esplose alle sue spalle.Raggiunta da uno sciame di chiodoni e di sferette di acciaio sparate a velocità superiore a quella del suono, Lu morì istantaneamente e, almeno così hanno detto i patologi all’Ospedale Brigham Young di Boston, senza neppure rendersi conto.
Lu Lingzi, la ragazza fortunata venuta al mondo in un quartiere operaio in Manciuria e arrivata a un Master in scienze attuariali aveva vissuto 23 anni e percorso dodici mila chilometri per trovarsi esattamente, non un secondo prima, non uno dopo, all’appuntamento con una bomba.
Non sarebbe riuscita neppre lei a calcolare, pur bravissima come era, quali astronomiche probabilità ci fossero che una bambina circumnavigasse il mondo per morire dilaniata da una bomba alla Maratona di Boston, con un gelato di cioccolata e stracciatella in mano.

Nei paesi normali i potenti vanno al supermarket

di Vittorio Zucconi

Era la notte del 17 gennaio 1991, la notte delle bombe, quando dovetti correre fuori casa per cercare il latte. Poche ore prima, attorno alle sette di sera a Washington, sugli schermi televisivi di tutto il mondo la CNN aveva appena spiattellato gli spaventosi fuochi artificiali del bombardamento su Baghdad.
Scritto, come sempre in fretta e furia il pezzo per Repubblica e messi a letto i figli fortunatamente non più bambini, mi accorsi che non c’era il latte per la prima colazione. La moglie lontana, in Italia per assistere sua madre malata, ero io il “Mister Mom”, il signor mamma. Trovai un supermercato della catena Giant aperto tutta la notte e mi avvicinai ai banconi del latte quando vidi un ometto, più piccolo e anziano di me e molto minuto, che pescava yogurth al mio fianco. No, mi dissi, non poteva essere lui. Non poteva essere quello che avevo visto due ora prima su tutte le reti tv alle spalle del Presidente Bush (il vecchio). Invece era proprio lui. Il generale Brent Scowcroft, in quei giorni il massimo consigliere militare di Bush, colui che aveva discusso, tracciato e guidato al fianco del Presidente proprio quella guerra che avevo appena visto cominciare.
Era solo, senza scorte, senza portaborse, autista o macchine di servizio, un “pensionato” vicino ai 70 anni al quale chiaramente la moglie aveva chiesto di passare al supermercato per qualche provvista rientrando dalla bottega, cioè dalla Casa Bianca. Mi avvicinai. “Come stanno andando, ehm, le cose in Iraq?”, gli chiesi. Mi rispose: “Per ora abbastanza bene, speriamo che continuino”. E se ne andò alle casse, uno degli uomini più potenti d’America e del mondo, uno che ogni spia del pianeta avrebbe voluto acchiappare per spremerne i segreti, col suo cestino di plastica e i suoi yogurt magri.
Ho rivisitato questa scena a metà aprile, in un pomeriggio di sabato. Su un campetto di calcio nei sobborghi di Washington guardavo uno dei miei nipoti (tranquilli, calma, non intendo parlare di loro) giocare. In porta, c’era un bambino messo lì perchè era il più alto e fingeva di fare il portiere, continuamente richiamato dalle grida del padre, una versione più alta e molto più grande di lui, ma quasi identico.
Lo riconobbi subito. Era Denis McDonough, un nome che avrebbe fatto tremare tutta Washington e mezza America. Era il “Chief of Staff”, il capo gabinetto di Obama, di fatto il presidente ombra degli Usa, colui dal quale passa tutto quello che arriva sulla scrivania del Capo, che controlla la macchina del governo, che trascorre molte più ore al giorno con Barack di quante ne passi Michelle.
Anche lui, come il generale vent’anni prima nella notte delle bombe e della spesa, era, in quel pomeriggio un uomo qualsiasi, un padre con la solita felpina scolorita di tutti i padri americani nei week end. Mentre la moglie, sdraiata sull’erba, chiacchierava con altre signore e madri, probabilmente lagnandosi e ridendo dei rispettivi mariti, lui, il secondo uomo più potente d’America, stava ai bordi del campo brontolando contro l’arbitro e incitando il figlio. Non seppi trattenermi dall’avvicinarlo e chiedergli come andasse la legge per limitare un poco la vendita di armi. “Sarà dura”, mi rispose senza perdere d’occhio il figlio portiere, che zompettava un po’ imbranato.
Anche lui non aveva scorte nè guardaspalle, auto di servizio o portaborse. Un uomo qualsiasi, in quel suo tempo privato, da padre del portierino scarso, non da “Capo Gabinetto”. Alla fine della partita se ne andrà consolando il figlio, che aveva incassato 5 pappine, sul minivan Chevy un po’ delabrè guidato dalla moglie, mentre io consolavo il nipotino che aveva gli occhi rossi per avere ciccato un gol già cotto.
E anche lui, come il generale vent’anni prima, era una delle ragioni per le quali, dopo avere portato in giro per il mondo la mia piccola tribù, avevo deciso con mia moglie di piantare le tende negli Usa e di far crescere i figli qui. In una nazione che gronda di orribili difetti e di enormi colpe, ma dove anche i potenti ricordano di essere soltanto persone qualsiasi, chiamate teporaneamente a servire la nazione per la loro competenze, non per diritto divino.
E poi perchè c’è sempre un supermercato aperto tutta la notte per salvare i padri distratti.

Il giallo della signora che trovò un Reinor rubato

di Vittorio Zucconi

Tra le vecchie ruote di carro, gli abiti di quinta mano e i quadri dei cani che giocano a poker, in quel mercatino delle pulci nella Valle di Shenandoah, in Virginia, Martha scelse uno scatolone rivestito di pelle di vacchetta. Costava 10 dollari. Dirà poi Marta Fuqua di non avere neppure guardato bene che cosa contenesse quella scatola e di avere gettato soltanto un’occhiata a un quadretto di 15 centimetri per 27 con un paesaggio della Senna di sapore impressionista, come ne esistono a migliaia in ogni mercatino del mondo. Soltanto più tardi, arrivò la scoperta sensazionale: quel paesaggino veniva dalla mano di Pierre-Auguste Renoir, uno dei maestri sommi della scuola impressionista francese. Il valore presunto, quando fosse stato battuto a un’asta, vicino al milione di dollari.
Per molti mesi, anche quando la notizia si diffuse dopo che case d’asta, responsabili di musei, conoscitori di Renoir avevano riconosciuto in quel Paesaggio sulle Rive della Senna una delle opere scomparse del maestro, Martha Fuqua cercò di restare anonima. Era conosciuta al pubblico soltanto come la Renoir Girl, la ragazza del Renoir. Ma poi accadde qualcosa, che non soltanto ha rivelato l’identità della donna, ma ha spalancato la porta a un thriller che neppure Hollywood.
Il quadretto di Renoir risultava rubato al Museo di Baltimora, città che dista un paio d’ore di auto dalla località del mercatino. “Ma io non potevo saperlo”, si è difesa Marta, la “ragazza del Renoir”, che oggi sappiamo essere una bella signora bruna quarantenne. Davvero?
Quando l’Fbi, che si occupa di traffico d’arte rubata, arrivò per sequestrare il quadro, si scoprì che quell’ingenua fortunata era una che di arte s’intendeva e anche molto. La madre, allora ultra ottantaseienne, possedeva due lauree e un master (veri) in belle arti, con specializzazioni in Impressionismo francese. Da bambina e poi da ragazza Martha era stata trascinata da lei in tutti i musei d’arte moderna della zona, da New York, a Philadelphia, da Baltimora a Washington.
Era stata allevata nel culto dell’arte ma – aspettate – anche del dipingere. La madre aveva un proprio atelier nel quale si dilettava con tele e tavolozze, anche riproducendo pezzi celebri. Indovinate chi era l’autore che la mamma della Renoir Girl amava riprodurre? Troppo facile. Renoir, Pierre-Auguste.
La tela, nel senso del ragno, da allora ha continuato ad allargarsi. È saltato fuori che la madre, la pittrice, era nei guai, con debiti per 400mila dollari dopo il fallimento del ristorante Fleur de Lys, che aveva aperto e poi chiuso. Felice coincidenza, il suo adorato Renoir l’avrebbe salvata dai creditori. La donna che vendette lo scatolone che conteneva il capolavoro non sa spiegare da dove venisse e risponde di averlo anche lei acquistato da un rigattiere. Il rigattiere dice di averlo trovato in una soffitta che aveva ripulito per incarico degli eredi di una signora defunta.
Il Museo di Baltimora, che aveva fatto la prima denuncia, dice di averlo atteso invano dall’Europa, dove gli eredi del proprietario legittimo – fino dal 1926 – l’avevano donato e di avere ricevuto la bolla di viaggio ma non il quadro. E quei malfidenti dell’Fbi, e dei procuratori, cominciano a sospettare che quell’acquisto fortunato a casuale non sia stato affatto casuale e fortunato, ma il terminale insospettabile di una lunga filiera di traffico d’arte rubata, nascosta dietro l’innocenza di un mercatino delle pulci.
Ora tutti stanno querelando tutti. Il rigattiere querela il bancarelliere del mercatino. Il bancariellere denuncia Martha. Martha la ragazza del Renoir denuncia loro due. Il Museo di Baltimora rivuole il quadro e denuncia tutti. L’Fbi indaga sul museo, sul rigattiere, sul bancarelliere, sulla ragazza del Renoir, sulla società di spedizoni, sulla casa d’aste che era pronta a battere il quadro che a sua volta ha denunciato gli esperti.
Il quadro è chiuso in una cassaforte termoregolata e a prova di umiditàdel Museo di Baltimora, imballato e sigillato. La mamma di Martha nel frattempo è morta, portandosi via, molto probabilmente, la verità sul lungo viaggio di Renoir dalle sponde della Senna a una valle della Virginia.

In primavera il verdetto arriva per posta

di Vittorio Zucconi

Questa – e la ricordo bene – è la stagione del cuore che batte dentro la cassetta della posta. Per otto milioni e mezzo di famiglie americane la primavera è il tempo nel quale la busta recapitata con il nome e il simbolo di un’università può decidere il futuro di un figlio o figlia. Il sì o il no del college al quale si è fatta domanda di ammissione nell’autunno precedente è il coronamento di anni di preparazione non soltanto accademica alla più grande e crudele lotteria nazionale, quella per l’ammissione all’università.
In una nazione nella quale non esiste valore legale dei titoli di studio, dunque nessun diploma garantisce accesso a nulla e le lauree valgono per come e per dove sono state conseguite, la differenza fra essere ammessi a un’università famosa, a una meno illustre o a nessuna si traduce non soltanto in amarissime delusioni o gioie immense, ma in contanti. Un laureato con almeno il Bachelor’s Degree, il titolo quadriennale, guadagnerà in media il doppio di un diplomato di liceo, dicono le statistiche del Ministero del Lavoro fino dal primo anno di impiego. Una differenza che nel corso della vita si tradurrà in milioni di dollari. Si celebrano vite dei santi dell’economia, dei Jobs, Gates, Zuckerberg, assunti in cielo nonostante la mancanza di lauree, ma i loro sono i casi dell’operaio che vince 300 milioni alla Lotteria: fanno notizia perchè sono eccezioni. Laurea è sempre meglio.
Nel duro Vangelo dell’ istruzione universitaria, pubblica o provata che sia, vale però la crudele legge del “molti sono i chiamati e pochi gli eletti”. La percentuale di “eletti”, di accettati dall’insindacabile giudizio della commissione che esamine le domande, è minuscola. La più selettiva, la Julliard School di New York che forma musicisti, ballerini, compositori, artisti di domani, su 2.500 domande nel 2012 soltanto 178 sono state accettate. In nessuna delle top 100 università, i “sì” oltrepassano mai il 20 per cento delle domande.
Poiché non esistono criteri sicuri e universali per essere ammessi all’onore di pagare almeno 200 mila dollari all’anno per la laurea quadriennale nelle “top 100”, la corsa alla busta dentro la cassetta della posta comincia per molti al momento del concepimento. Prenotazioni per gli asili e le materne migliori, che promettono accesso poi alle elementari scelte, poi al licei e via via ai college di prestigio cominciano appena il test di gravidanza è positivo, in città come New York, perché la lista d’attesa è chilometrica. Signore con il pancione affollano corsi tenuti da astuti esperti che illustrano – naturalmente a pagamento – la strategia sicura per vincere alla lotteria dell’accademia.
Alla bambina e al bambino verranno imposti corsi e sport supplementari di ogni genere, dal trombone alle lezioni di scacchi, dall’assistenza ai poveri alla pittura, per imbottire quella domanda di ammissione oltre i voti.
Amicizie e parentele sono fondamentali, oltre a generose donazioni per rifare la piscina o comprare nuove attrezzature, perché l’istruzione è un’industria e le commissioni prediligono famiglie conosciute o di gran nome, possibilmente generose. Con i mediocri voti presi al liceo, John F. Kennedy non sarebbe mai stato accettato a Harvard né George W. Bush a Yale.
C’è chi si inventa antenati Amerindi o lontane genealogie africane, perché le minoranza etniche godono di speciali considerazioni, come anche le femmine, anche se fingersi donna è leggermente più complicato che fingersi discedente di un capo Cherokee, nella vita di comunità nei dormitori per studenti.
Per coprirsi le spalle, si mandano almeno cinque o sei domande di ammissione, partendo dai migliori colleges perchè non si sa mai, e via via scendendo nella graduatoria verso quelli di manica larga, che raccolgono le anime respinte alle porte del Paradiso. E non è affatto vero che nelle università di gran nome si formino avvocati o poeti, ingegneri o medici, storici o matematici migliori di quelli uscite da college meno famosi. Ma nell’età del “griffato”, nella quale la marca della borsa sembra contare più della qualità della borsa, quel timbro stampato sulla busta nella cassetta è la laurea più ambita. Per le madri e i padri.

Se svanisce il sogno del sobborgo

di Vittorio Zucconi

Come quindici milioni di americani negli ultimi dieci anni, Tara Simons decise di lasciare le “mean street”, le strade cattive della grande città per rifugiarsi nel ventre rassicurante della suburbia. Quando, otto anni or sono, divorziò e ottenne la custodia della figlia allora bambina, Alexis di sei anni, Tara vide in quel mondo di stradine ordinate, di grandi alberi, di praticelli con la manicure, di buone scuole pubbliche, il luogo perfetto nel quale far crescere la figlia.
Gli assegni di mantenimento che l’ex marito pagava puntualmente, più il suo lavoro di contabile per una catena di negozi di arredamento, le permisero di comperare una piccola casa carina, di mattoni rossi con le imposte bianche, a West Hartford. È un sobborgo buonissimo nel Connecticut dove il reddito medio è superiore agli 80 mila dollari, tutti (o quasi) pagano le tasse e dunque i servizi pubblici, dalle scuole, alla raccolta dei rifuti, alla manutenzione, sono eccellenti.
Questo, di una vita indipendente, di una nicchia domestica in un sobborgo sicuro nel quale neppure si chiudono a chiave la porta o la macchina è stato, per decenni, il sogno americano. Dal boom degli anni 50, quando nacquero le prime comuntà di casette identiche e prefabbricate ai confini estremi delle città e poi oltre, la popolazione dei “suburbaniti” è raddoppiata e ha superato quella degli “urbani”. Gli incubi, la violenza, il disordine, il rumore, il contatto quotidiano con la povertà e con i ghetti restavano confinati entro i limiti del Comune. Via dalla pazza città. Per Tara, il sogno finì quando il negozio di arredamento per il quale lavorava sprofondò nella fossa comune del 2008. Fu licenziata. E il paradiso profumato di carne arrostita sul barbecue, accompgnato dalla cacofonia dei tagliaerba, segnato dal ritmo delle fioriture delle azalee e dall’ingiallire delle foglie, si chiuse.
Con lavoretti occasionali pagati a ore e gli alimenti del marito, Tara scoprì che il sobborgo dei benestanti può essere più crudele della città dei più poveri.
Non ci sono reti di sicurezza, per raccogliere chi cade dal trapezio. Nel “burb” ognuno è per sè. Non c’è una strada, un quartiere, una comunità, una “vicinanza”, come la chiamavano i primi immigrati italiani, che possa surrogare una madre che deve andare al lavoro con madri o nonni di altri. Quando l’automobile si acciacca, il ferrovecchio spicca come un brufolone sulla fronte, in mezzo alle macchine fresche di concessionaria. I figli, soprattutto le figlie, non riescono più a stare al passo con i figli degli altri, che vestono “giusto”, che hanno l’equipaggiamento corretto per tutti gli sport che un bravo studente dei sobborghi deve praticare, calcio, basket, hockey su prato, lacrosse, baseball, softball, tennis e per le lezioni di nuoto. I trasporti pubblici sono rari e inutili, per chi deve correre da un lavoro all’altro nello stesso giorno su distanze grandi.
Il sobborgo può essere spietato con chi non riesce a “stare al passo coi Jones”, con i vicini di casa impeccabili, che riverniciano le imposte ogni due anni e tengono l’erba sempre della giusta altezza. Nè importa che tu non sia la sola ad annaspare.
Nel comune di West Hartford, la “Dispensa Comunale”, il centro che distribuisce alimenti a chi non li può comprare, si svuota prima di mezzogiorno. Il furgone che distribuisce beni di prima necessità e fa il giro della zona ha figliato e oggi ce ne sono venti, pagati da beneficenze, chiese, associazioni caritateli e non bastano. Con Alexis ormai ragazza, liceale a 14 anni, e in grado di muoversi da sola, Tara Simons ha deciso di abbandonare il sogno e tornare alla realtà. Andrà a vivere con la madre, nell’appartamento al centro della città, Hartford, dal quale era fuggita per cercare il proprio pezzo di sogno.
Non sarà sola. Per la prima volta dal 1950, la ruota della continua grande migrazione interna americana ha cambiato direzione. Nel 2012, sono state più le persone che hanno ripreso la via delle città, di quelle che se ne sono andate. “Dovrò ricordarmi di chiudere la porta a chiave”, dice. Anche sui suoi sogni.

Cercare lavoro è un mestiere sempre più difficile

di Vittorio Zucconi

Volano come origami portati dal vento delle speranze e delle necessità, i nostri Curriculum vitae, o “curricula” – se volete far vedere che ricordate un po’ di latino – oggi anche elettronici. Volano e per la grandissima parte precipitano nel cestino dei capi del personale, ora più elegantemente definiti HR, responsabili delle risorse u- mane, forse per distinguerli dai poveretti che si occupano di risorse animali, spesso abbondanti nelle aziende. E ora che l’economia americana, nonostante i formidabili calci di mulo che la politica parlamentare le infligge, consolida i segni di ripresa e quindi di lavoro, lo stormo di origami potrebbe oscurare il cielo: perché le domande di assunzione aumentano sempre, quando le cose migliorano. è normale per il responsabile delle assunzioni di una azienda media ricevere per posta o per e-mail 500 resumè per ogni posto disponibile. Ci sono specialisti del bombardamento a tappeto che arrivano, secondo i siti on line di offerte e ricerche di lavoro, a inviarne 50 al giorno. Si pensa che in ogni momento ci siano almeno 15 milioni di resumè, o curricula (non sono sempre la stessa cosa) in viaggio.
Scriverli, quando non esiste un modulo rigido che richiede soltanto di essere compilato, è una forma d’arte, e come tutta l’arte richiede un poco di ispirazione e molta sudorazione. Ci sono corsi universitari e società specializzate che insegnano come prepararli, e tutti concordano su alcuni errori da evitare assolutamente.
Il primo, che sembrerebbe ovvio ma in realtà non lo è, sta nell’essere certi di essere qualificati per il lavoro offerto. Se un ristorante cerca un sous chef, un aiuto cuoco, inutile tentare la fortuna avendo una laurea in ingegneria o una magnifica raccolta di poesia pubblicate. Almeno un terzo dei CV vengono gettati subito perché la scarpa non calza il piede.
Il secondo, micidiale, sono gli errori di ortografia, di grammatica o di sintassi. L’avvento degli odiosi correttori automatici ha ingenerato un falso senso di sicurezza, ma poi basta leggere giornali, o blog, o tweet, per sapere che gli sfondoni passano come acqua nella rete di un pescatore. “Un errore e sei nel cestino”, ha detto la nuova presidentessa di Yahoo, Marissa Meyer, a un seminario.
Il terzo, meno letale ma diffuso, è la prolissità. Se avete qualche cosa da dire, ditelo nel minor numero possibile di parole, evitando sia la fissazione con gli acronimi, tipo “possiede un CRA al PRT con FLIT per TRUB e GLOG di KLUNK”, sia la pomposità. Dovrebbe essere superfluo, ma non lo è, dire che attribuirsi titoli di studi mai presi, o spacciare per master brevi conferenze estive, produce disastri anche tardivi. Propio l’ex presidente di Yahoo è stato cacciato anche per avere vantato una laurea che non aveva.
Il quarto è la banalità, gemellina della noia. Pensate a quel disgraziato che deve leggersi 100 CV al giorno, tutti pompati di merito e autoreferenzialità vanitosa, da quando l’aspirante suonava il violino a dieci anni fino alla conquista del premio “Miglior torta di mele” alla festa del paese. Un tocco di originalità, un discreto accenno di ironia, può attirare l’occhio e meritare l’intervista. Rammentate che almeno la metà di quelle proposte contengono esattamente le stesse qualifiche e la stessa storia personale. Pare, scherza Alison Doyle di Jobsearch, che metà degli americani abbia suonato il violino a 15 anni mentre l’altra metà soffiava nel trombone della banda.
Evitare poi, quinto punto, la lagnosità. Se si ha bisogno di quel lavoro, significa che non se ne hanno altri migliori, ma la aziende cercano gente che vuole, non che deve, lavorare in quel posto. Occorre fingere ottimismo e, brutta ma inevitabile parola, “motivazione”.
Non esiste invece, e purtroppo lo sanno milioni di persone, giovani e non più giovani, la formula sicura per vincere alla “lotteria degli origami”. In realtà ce ne sarebbe una, ma è riservata a pochi, indipendentemente dalle qualifiche e dai titoli: essere figli del proprietario dell’azienda. Ma non funziona sempre neanche quella: due candidati su dieci che fanno domanda di assunzione nella ditta di famiglia, sono respinti. Gli affari, figliola mia, sono affari.

Le guerriere che contro i talebani combattono per sè

di Vittorio Zucconi

Sono le vendicatrici della notte, le furie delle ore più buie. Con le sciarpe attorno al viso o il passamontagna sotto l’elmetto di kevlar irrompono nelle case dei villaggi tra le grida delle donne e dei bambini scossi dal sonno, mentre i loro colleghi maschi inseguono gli uomini che fuggono dalle finestre. Sono i commando femmine della forze speciali afghane, un genere, anzi, una specie aliena, che quelle valli non avevano visto da più di cento anni.
Nell’indifferenza che l’America – e le nazioni che hanno soldati in combattimento – provano per la sempre più sordida e ignorata guerra in Afghanistan trascinata da dodici anni, ci sono figure che soltanto ieri sarebbero state inimmaginabili: giovani donne, spesso ragazze di neppure 20 anni, che si arruolano nell’esercito regolare afghano per partecipare alla battaglia sul campo contro la rinascita dei Taleban, di coloro che, quando erano al potere, le avrebbero lapidate a morte soltanto per avere osato mettersi a fianco di maschi sconosciuti e avere scambiato quale sguardo troppo lungo con un ragazzo.
I militari americani, uomini e donne, che le accompagnano nelle azioni di attacco e di rastrellamento raccontano queste afghane in uniforme, con il volto coperto per non essere mai riconosciute, con un brivido di paura, ancora più che di rispetto.
Come i loro antenati, padri, fratelli maschi sono tutte combattenti nate. La loro genealogia risale a una ragazzina di 14 anni, Malalai, che da una collina guardava lo scontro fra le truppe di Sua Maestà britannica e la resistenza afghana nella battaglia di Maiwand, nell’altipiano del Kandahar nel 1880. Quando vide gli afghani cadere e piegarsi sotto la spinta delle forze inflesi, Malalai corse fra i caduti, raccolse la bandiera, chiamò all’attacco gli uomini e li guidò alla vittoria. Morì nell’assalto, non prima di avere infilzato un buon numero di nemici, e divenne la Giovanna D’Arco della storia nazionale.
Alle nuove Malalai del XXI secolo i superiori non chiedono il martirio. Poichè sanno che nessun afghano, maschio o femmina, fanatico o meno, tollererebbe mai che donne e bambine fossero toccate e perquisite da uomini, queste ragazze in uniforme accompagnano i commilitoni nei raids notturni in accampamenti, villaggi sparsi nell’immensità del Paese. La notte è il momento nel quale i nemici sono vulnerabili, perché anche il più fanatico e invasato deve pur dormire e cercare rifugio dalle temperature micidiali dell’inverno.
A chi domanda loro perché si siano arruolate, con la stessa identica paga degli uomini, fatto già straordinario, e perché si battano al fianco degli stranieri rischiando di apparire come collaborazioniste e non partigiane come Malalai 133 anni or sono, rispondono che esse non combattono per Obama, per l’Onu, per il ben poco rispettato governo di Karzai, ma per loro stesse.
Per le madri che avevano dovuto sopportare le atrocità e le piccole umiliazioni inflitte da un regime che proibiva loro anche di portare tacchi pur sotto il burqa pesante campale, perché il ticchettìo delle scarpe poteva eccitare gli uomini. Vanno al fronte per le loro figlie, che le vedono indossare nel tardo pomeriggio l’armatura del soldato, imbracciare il fucile semiautomatico, indossare l’elmetto con il visore notturno a raggi infrarossi, che sembra il rostro di un rapace preistorico appollaiato sulla testa. E dunque quelle bambine sanno che le donne, anche in Afghanistan, possono fare anche le cose più terribili e dure inventate dagli uomini, come la guerra.
Non hanno paura neppure della crudeltà, quando è necessario sparare contro altre donne che nascondevano sotto i panni armi letali come le loro, perché non ci sono timide educande, fanciulle svenevoli, nonnine bonarie in queste guerre, semmai vittime indifese. “Chiunque verrà dopo – dice una di loro a una tv americana con una voce sottile di ragazza dietro la lana sulla bocca – deve sapere che dovrà fare i conti con noi, con questa generazione di donne che non si faranno più schiacciare senza reagire”. La nostra guerra, dicono, noi l’abbiamo già vinta.

Le foto di famiglia non svelano niente

di Vittorio Zucconi

La foto di famiglia è il ritratto della perfezione domestica, nell’America perbene degli anni Sessanta, in bianco e nero. Eccoli tutti e otto schierati davanti alla loro piccola casa ancora in “church clothes”, gli abiti buoni indossati per andare in chiesa. Edward Vessels, il paterfamilias, più alto di tutti, con l’immancabile cravattina sottile, accanto a Fran, la moglie con gli occhiali a farfalla e il sorriso sotto la fresca messa in piega. Schierati davanti, in scala discedente, i sei figli. I due gemelli Kris e Ken, un altro maschietto, le tre bambine fino alla più piccola, Lynnie, tre anni, le scarpette di vernice sopra le calzine bianche corte. Una esemplare famiglia, costruita da genitori, che si erano conosciuti studiando all’Università Cattolica di Washington e sposati nella chiesa di San Domenico, nella capitale. La foto è del giorno di Pasqua 1964.
Tre anni più tardi, il papà con gli occhiali di (finta) tartaruga entrerà nella cucina della villetta a un piano, quella ripresa dietro la foto di famiglia. Annuncerà ai sei figli che ucciderà la loro madre e loro andranno tutti in un orfanatrofio, come un altro avrebbe annunciato che la prossima estate niente mare e invece collina. Scenderà in cantina, ne risalirà brandendo un fucile e sparerà a Fran, la moglie, sotto gli occhi dei figli. I due più grandi, che tenteranno di fermarlo. La terzogenita, di nove anni, nascosta sotto il letto al piano di sopra.
Quello che la foto non aveva potuto riprendere era che Ed, il padre, era un alcolista fradicio. Ogni sera, tornando dal lavoro di commesso viaggiatore, pestava i figli, soprattutto i maschi, fino a farli sanguinare. Spediva Ken, uno dei due gemelli a dormire fuori, all’addiaccio su una piccola collina boscosa dietro la casa. I vicini sentivano fino alle ore piccole le grida del bambino che implorava il padre, “Papà posso tornare? Papà posso tornare?”. Nessuno diceva nulla. Non c’erano telefoni azzurri, non c’erano centri di accoglienza e di sostegno per donne vittime e per i loro figli nel Kentucky degli anni ’60. C’erano la pretesa, la finzione, l’immagine della famiglia perfetta. L’omertà.
Questa storia non avrebbe purtroppo niente di così straordinario, se non fosse per il seguito, quasi 50 anni dopo.
Mezzo secolo dopo quella sera del 1967, Fran, la donna alla quale Ed sparò da pochi passi in cucina, è ancora viva. Abita in una casa di riposo del Kentucky, lamentandosi soltanto per i dolori costanti al braccio destro e alla spalla che il colpo le sbriciolò e che i chirurghi seppero ricostruire in anni di interventi. Il braccio è soltanto un po’ più corto dell’altro, mancava qualche pezzo.
Ancora più incredibile è la biografia di quei sei bambini vestiti dalla festa. Tutti, ormai uomini e donne di mezza età hanno saputo costruirsi una vita, appoggiarsi l’uno all’altra, occuparsi della madre dentro e fuori gli ospedali, mantenersi quando uno di loro perdeva il lavoro, restare una famiglia anche mentre alcuni emigravano in Australia e Nuova Zelanda. La più piccola, che la sera della sparatoria si era nascosta dentro la dispensa, ha potuto pagare un viaggio a Parigi per la madre e accompagnarcela nel 1989. Tutti sono sposati, una per due volte, quattro hanno figli.
E non finisce neppure qui, la storia della famiglia perfetta.
Quando il padre fu rilasciato dall’ospedale psichiatrico, con ormai pochi anni da vivere – morirà a 48 anni con il fegato distrutto – si ripresentò nella stessa casa. Chiese perdono alla moglie, ai figli e alle figlie. Lo fecero aspettare fuori. Si riunirono attorno a Fran, la madre che era tornata dall’ennesimo ricovero in ospedale e decisero di accettare la sua richiesta di perdono.
Non lo fecero entrare. Lo confinarono nella stanzetta di un ricovero pubblico. A turno, lo andavano a trovare, uno per volta, una volta al mese, per sentirgli ripetere, uno per uno, la ammissione di colpa, per le botte, le notti soli nel bosco, i minuti di terrore, la fucilata alla madre.
Ma nessuno di loro lo perdonò mai.

Vota Hazel e non te ne penti

di Vittorio Zucconi

Se promettete di non voltare subito pagina, vorrei parlarvi ancora per una volta, l’ultima, di politica e di elezioni. Vorrei portarvi lontano, al freddo, in una cittadina dell’Ontario, Canada, dove ogni alba sopra lo zero è considerata dagli abitanti con preoccupazione, come un’ondata di caldo e il periodo ufficiale delle nevicate finisce il 31 marzo. Si chiama Mississauga, ed era un villaggio dei nativi Ojibwa fino a quando arrivarono i cacciatori francesi e la ribattezzarono con il nome del fiume che l’attraversa, probabilmente perché il nome originale era impossibile da pronunciare per un francese. Poi piombarono gli inglesi pigliatutto. Soltanto dal 1974 è diventata una città, un comune autonomo, e se questa storia di nativi, di trappeur francesi e di mercenari britannici sembra una carineria folkloristca genere Pocahontas, Mississauga è tutto meno che un villaggo sulle rive del grande lago Ontario. All’ultimo censimento contava quasi 800 mila abitanti, non molti meno di Napoli o Torino e più di Palermo.
Quello che la rende straordinaria è il fatto che dal 1974, quando si svolse la prima elezione, Mississauga ha sempre avuto lo stesso sindaco, la signora Hazel McCallion. Quando vinse il suo primo incarico, a Washington era ancora Presidente Richard Nixon e in Italia Mariano Rumor era capo del governo.
Hazel McCallion ha vinto 13 elezioni consecutive, l’ultima delle quali lo scorso anno con il 76% dei voti. Più della metà degli 800 mila abitanti di Mississauga, tra quelli nati dopo il ’74 e le decine di migliaia di immigrati soprattutto dall’Asia, non hanno mai conosciuto altro sindaco al di fuori di lei e non potrebbero immaginare nessun’altra persona a City Hall, la sede del Comune, che non fosse questa figlia di un pescatore del lago che aveva cominciato trasportando cassette di pesce al mercato, oggi donna circonfusa da un’aureola di capelli candidi, vedova, madre di due figli e nonna.
Avendo lei 93 anni, un giorno dovranno rassegnarsi a sostiturla, ma non vogliono neanche pensarci. In quasi 40 anni di governo cittadino, mai il minimo sospetto di mala amministrazione l’ha sfiorata. Mentre al governo di Ottawa si succedevano otto primi ministri di diverso colore politico lei si è sempre tenuta fuori dalle zuffe di partito, anche se le sue inflessibili posizioni a favore dei diritti delle donne, della sanità pubblica (che esiste in Canada) della legalità intelligente, dell’assimilazione degli immigrati l’avrebbero qualificata in altre città o nazioni come una progressista.
Mississauga, che è appiccicata a Toronto, è una delle città con meno crimine e maggior sicurezza nel Canada. Ha meno disoccupazione, crimine, atti di violenza, gang di quasi tutte le altre grandi città del Nord America, nonostante, lo ricordo, gli 800 mila residenti. Ma forse il dettaglio più sbalorditivo della amministrazione McCallion è che dagli anni ’90 anni attraverso cataclismi e crack mondiali, guerre e megatruffe, derivate e banche, la sua città ha un bilancio in attivo e praticamente nessun debito, oltre i bond ordinari che ogni comune emette per pagare le spese correnti in attesa che arrivino gli introiti fiscali. Naturalmente a interessi bassissimi perchè la città è finanziariamente solida come la roccia.
Novantatre anni sono parecchi, anche per la figlia di un pescatore che consegnava cassette di pesce in giro per la città tutto l’anno e dunque non deve essere di natura freddolosa visto che continua anche a giocare a hockey su ghiaccio con le amiche dopo avere giocato per un team professionistico nella Lega Hockey femminile.
Ma se per caso, tra qualche anno, Hazel cominciasse, come accade talvolta agli anziani, a diventare un po’ insofferente ai meno dieci gradi di media e ai venti gelidi che scendono dal Polo Nord gonfiandosi di umidità micidiale per le artrosi, dico, se per caso avesse voglia di trascorrere gli ultimi anni della propria vita in un clima migliore, avremmo in Italia alcune città che potrebbero eleggerla volentieri.

I figli crescono nonostante i genitori

di Vittorio Zucconi

La trovo che strepita, con la testa dentro la cesta e il sedere per aria, incapace di venirne fuori, come un’aragosta con i riccioli biondi e gli occhi azzurri. L’ultima della mia cucciolata di nipoti (grida ed espressioni irripetibili in direzione e redazione di “D” di Repubblica sul tema, noooo!!!, ma per favore, Zucconi di nuovo ce le rompe con i nipotini) dunque, dicevo, l’ultima della mia cucciolata, Francesca, non ha ancora tre anni e si è scoperta una passione divorante. Le automobiline.
Mentre la sorella maggiore sfarfalleggia come una ballerina del Bolshoi, colleziona cuoricini adesivi da appiccicare o-vunque e svenevolmente si getta tra le braccia di genitori o di chi ne fa le veci, la minore si fionda sul rottamaio di modellini dimenticati dal fratello maggiore anni or sono, e respinge con sdegno ogni proposta di smancerie.
La scoperta che la piccolina, cresciuta, vestita, bamboleggiata e coccolata dalla madre esattamente come la sorella, gioca invece come il maschio, quello che lei non aveva mai visto all’opera con le automobiline, è un sollievo. Calma il solito timore che le femmine crescano sognando di essere Barbie perché sono condizionate dagli adulti a comportarsi da bambole.
L’intensità di Francesca nel cercare di far correre sul pavimento modellini diroccati dal fratello grida una piccola, ovvia, banalissima verità che noi genitori e parenti troppo spesso dimentichiamo, mentre guardiamo il soffitto della camera da letto alle due del mattino cercando invano di prendere sonno, di fronte al mistero della figliolanza.
Dice che i bambini, i nostri figli, sono quello che sono, crescono come pare a loro e ci sono limiti a ciò che noi adulti, per fortuna o per disgrazia loro, tentiamo di farne. Un adorabile cinico, mio padre, di fronte agli attacchi di angoscia che mi afferravano aspettando il primo figlio, nella certezza della mia inettitudine di padre, mi confortava dicendomi che “i figli crescono nonostante i genitori”. Che era sì un conforto, ma, ripensandoci, non un grande attestato di fiducia a me.
Dei miei sei nipotini, che sono obbligato adesso a nominare tutti per evitare di essere scuoiato vivo da nuora o figlia, indifferente alle urla di protesta dei redattori e lettori di “D”, Devin John, Tommaso, Anna, Vittoria, Julia e Francesca, stanno crescendo ciascuno nel proprio mondo e manifestando ognuno segni evidenti di quanto saranno diversi da uomini e donne adulti, nella dinamica dei rapporti fra loro e con il mondo oltre la casa.
C’è il sognatore riservato che si è già letto tutto Harry Potter a otto anni e pensa a maghi e maghetti mentre gioca a calcio, in porta, e gli avversari tirano, scatenando la furia bestiale del “mister”. Ho l’esperto di fauna acquatica che ha deciso di dedicarsi da grande alla biologia marina e martella le tasche al nonno con l’anatomia, la fisiologia, la mirabile diversità degli squali.
C’è la Cenerentola civetta e frou frou che indossa gonne di tulle su gonne di tulle, calza zoccoli di un rosa ripugnante, costruisce fiabeschi castelli che cerca di scalare, franando a terra fra rovine di plastica. Abbiamo la ballerina che ha già fatto una parte in un’edizione molto “low cost” del musical Pocahontas e ora sogna il Metropolitan, poi quella di temperamento malinconico, inseguita dalla sorellina con gli occhi ridenti e maliziosi che rompe le palle ai fratelli più grandi fino a interventi tempestosi della madre. E infine la Schumacher col pannolone, che rifiuta il vasino per non staccarsi dalle sua Formula Uno.
Tutti, naturalmente, cambieranno. Già il sognatore ha imparato a rivendere per 25 cent a compagni sbadati gomme e matite fornite dalla scuola, beccandosi un cazziatone dalla signora maestra: farà l’uomo politico? Il biologo marino presto tradirà Jaws per inseguire l’astrofisica o l’alpinismo. Le ballerine e le principesse potranno diventare pilote di jet e la biondina con la testa nella cesta dei catorci dismessi si convertirà all’archiettura, perchè se non tutto, molto è possibile. Ma vederli rovistare nel grande cassettone del “come saranno” è una gioia quotidiana. Almeno per chi non deve cambiar loro il pannolino o rimborsare alla scuola l’incasso delle matite e delle gomme rivendute.

Il senso delle donne per la finanza

di Vittorio Zucconi

Le donne – spiega lo studio riservato di una grande società finanziaria e d’assicurazione americana, la Prudential – capiscono poco di complessi investimenti. Stentano ad afferrare il crescente livello di sofisticazione dei nuovi strumenti”. La Barclays Bank inglese, quella che è stata pizzicata con le mani appiccicose nel barattolo dei tassi d’interesse, nota che “le donne sono più facilmente stressate dalle difficoltà dei mercati” e quindi tendono a “perdere il controllo della situazione”. Basta fare un piccolo salto indietro nel tempo, non più di una generazione, per ritrovare esattamente queste affermazioni a proposito di donne al volante, il ben noto “pericolo costante”. E se le signore di oggi potessero conoscere il vero pensiero dei maschi scoprirebbero che sotto la vernice della correttezza e del quieto vivere molti di loro pensano ancora esattamente la stessa cosa.
Il mondo della finanza e degli investimenti è rimasto forse il solo, e l’ultimo, bastione, nel quale apertamente si possa dire che le donne siano indietro. Derivati, hedge fund, etf, spyder, put e call, margini e futures, sarebbero misteri per le donne di oggi come per le nostre nonne e bisnonne erano lo spinterogeno, il differenziale, il doppio carburatore e il rapporto di compressione. Se ormai tutti, o quasi, siamo stati costretti a capire che cosa demonio sia lo “spread” (la differenza fra gli interessi sui buoni del tesoro che i vari governi devono pagare per riuscire a venderli), che cosa significhi andare “corti” o “lunghi” su un titolo di Borsa è conoscenza ancora di pochi. Ma come in tutta quella cartaccia sussiegosa che passa per raffinata expertise economica, sovente scritta in caratteri microscopici per rendercene impossibile la lettura, e si è tradotta in catastrofi epocali quando non in truffe miliardarie, se si approfondisce un poco lo studio di queste ricerche e si prova a leggerle alla rovescia, ci si rende conto che la verità delle “donne al volante degli investimenti” è molto diversa.
Quello che i venditori di pacchi e paccotti finanziari lamentano è il fatto che le donne sono molto più difficili da convincere e che la loro allergia a prodotti come derivati, hedge fund eccetera è sana, intelligente diffidenza per tutto quello che è troppo bello per essere vero, e dunque probabilmente non è vero. Le donne che hanno risparmi, piccoli o grandi, da investire, spiegano, hanno l’irritante difetto di voler capire e di studiare. Consumano ore in Internet, dove abbondano analisi oggettive di titoli, obbligazioni, fondi. Tormentano brockers, agenti, venditori, consulenti facendosi ripetere le spiegazioni che non capiscono, senza fingere conoscenze che non hanno e che i maschi fingono di avere per fare i furbi. Poi spesso scavalcano le banche e le finanziarie investendo individualmente. Ci sono più “day trader” femmine, clienti che trattano titoli direttamente via rete anche giorno per giorno, che maschi. E mentre appena il 40 per cento dei maschi sono soddisfatti del rendimento dei propri risparmi affidati a un esperto, il 70 per cento delle donne che hanno agito da sole rispondono di avere avuto risultati positivi dalle proprie scelte.
Naturalmente non esiste una formula infallibile per guadagnare in Borsa, per ottenere mutui e crediti alle condizoni migliori o per mettere i “pochi e maledetti” almeno al riparo da terremoti e frane. Se ci fossero, come già diceva John Fitzgerald Kennedy, tutti quelli che cercano di vendere prodotti finanziari agli altri li utilizzerebbero per diventare miliardari e smettere di lavorare. Un po’ come quelli che vendono i numeri del lotto, se davvero sapessero prevedere i vincenti li giocherebbero per conto loro, guardandosi bene dal confidarli a noi.
Sembra però emergere, in un mondo bancario che ci fa sentire come il Pinocchio invitato dal Gatto e dalla Volpe a sotterrare i suoi zecchini d’oro, un “modo femminile” di muoversi per amministrare i propri soldi o quelli di famiglia, anche oltre i conti della spesa e le bollette.
È soltanto una coincidenza, forse, ma in Europa l’unico capo di governo che stia investendo bene i soldi del proprio Paese è una donna. Quella un po’ robusta e corta di gamba, la ricordate?

Un fucile non è il miglior amico delle ragazze

di Vittorio Zucconi

Non c’era posto per fanciulle svenevoli e signorine di buona famiglia, lungo i senteri del West tracciati dalle ruote dei carri coperti e seminati di animali e uomini uccisi. Le prime vaghe immagini dalla Frontiera scattate alla fine dell’800 mostrano famiglie nelle quali madri orgogliose esibiscono la carabina accanto al pupo.
L’America è stata fatta, colonizzata, conquistata, insaguinata tanto dalle Anna con il fucile, dalle Polly Crockett, la figlia di Davey, leggendaria cacciatrice, da Calamity Jane che alla caccia agli animali selvatici alternava la caccia ai nativi. E quando queste donne non dovevano preoccuparsi di cervi, orsi, lupi e Indiani leggermente irritati, non potevano certamente rilassarsi con animali ancor più pericolosi, gli uomini. Se il rapporto fra maschi soli e femmine raggiuge il 10 contro una come spesso accadeva e lo sceriffo più vicino sta a un giorno di galoppo, una rivoltella sotto le crinoline è la sola amica.
Nella storia della conquista e della formazione degli Stati Uniti sta forse la spiegazione di qualcosa che a noi sembra difficile da spiegare: perchè le donne americane di oggi, le figlie dell’educazione superiore, delle leggi anti discriminazione, del femminismo, non insorgano contro la tragedia delle armi da fuoco vendute come biberon o yogurt.
Questione di pari diritti e dunque di pari possibilità di sbagliare? Traduzione nella vita civile della raggiunta parità anche nelle uniformi delle polizie come delle forze armate, dove le femmine possono uccidere legalmente ed essere uccise? Purtroppo c’è un dato che cambia i termini di questa equazione di genere. Sono le donne le vittime maggiori del fuoco, soprattutto del fuoco amico. Il numero di americane uccise da colpi di pistola o di fucile è il triplo del numero dei maschi. Tradotto diversamente, questo dato, che viene da uno studio purtroppo su base larghissima condotto dai pronto soccorso, dice che gli uomini sono tre volte più pronti a scaricare le loro armi su una donna, del contrario.
Il “Forum delle Donne Indipendenti”, una lobby molto di destra, sostiene che siano proprio le donne ad avere più bisogno di un’arma in borsetta o sotto la gonna, perchè più esposte a violenze. Gayle Trotter, un’attivista pro-armi arriva a dire: “Una ragazza con un’arma di tipo militare in spalla non sarà disturbata da nessun bullo o criminale quando attraversa di notte la città”. Sul serio.
Nell’attesa di vedere ragazze che escono dalla discoteca imbracciando un Kalashnikov o un Uzi mentre si scambiano sms con le amiche sul telefonino le ricerche dicono ben altra cosa. Il Centro per le Ricerche sulla Violenza di Harvard rileva che il luogo più pericoloso per una donna, il teatro dei massimo numero di femminicidi non è affatto il vicolo buio. E’ la propria casa. È quella famiglia nella quale l’inevitabile lite, la scenata di gelosia, lo scontro rischia di finire con il marito, il compagno, l’uomo che scarica su di lei la propria frustrazione e la propria collera, a rivoltellate.
“Voi uomini non capite, siete più grossi e forti, la rivoltella è lo strumento di eguaglianza definitivo e psicologico fra i sessi”, dice la Trotter, che forse sopravvaluta il sentimento di sicurezza che un uomo prova quando viene circondato da rapinatori armati. L’illusione cozza contro un altro fatto che pure le statistiche sul crimine puntualmente confermano: che nelle sparatorie domestiche le prime vittime sono i bambini. I proiettili attraversano le pareti di carton gesso delle case come coltelli la polenta. E quando lasciano la canna, non conoscono amici nè nemici, ma soltanto bersagli. Che trovano, con sensazionale precisione, quasi sempre nel bersaglio più innocente.
Ma fino a quando non saranno le donne, quelle che più si sono battute contro la lobby del tabacco, contro le aziende inquinanti (ricordate Erin Brockovich contro la Pacific Gas?) contro la contraffazione dei cibi, contro la pericolosità dei giocattoli, a mobilitarsi contro le armi, nessuna legge seria potrà mai essere approvata.
Anna, lascia il fucile. E fallo deporre anche a tuo marito.

Dieci buoni motivi per evitare gli alberghi

di Vittorio Zucconi

C’era un tempo nel quale adoravo gli alberghi. Hotel era sinonimo di viaggio, di scoperta, di novità, era sapore di mondi possibili da conoscere dotati di immensa forza di attrazione. Ogni stanza era una storia umana diversa in attesa di essere raccontata, ogni luce accesa dietro le tende un mistero di felicità o di miserie. Per lavoro e per vacanze ne ho battuti di ogni categoria, dal lusso più ignobile al ripugnante squallore dell’ostello da cammelieri alla frontiera fra l’Arabia Saudita e l’Irak, nella notte della prima invasione, in una località chiamata Hafr al-Batin mentre gli elicotteri d’assalto pulsavano sopra la testa e i clangore dei cingolati scuoteva la notte. I cosiddetti “servizi igienici” erano rappresentati da un buco nel pavimento dal quale gli effluvi avevano la spiacevole tendenza a risalire, inondando il locale. Ma nel corso degli anni, ho scoperto che esistono più cose insopportabili, negli alberghi, di quante ve siano di desiderabili. Ne ho formato un personalissimo elenco di idiosicransie che ha ridotto la mia passione per gli hotel, grandi o piccoli.
Le finestre sigillate. Pensate per risparmiare sul condizionamento d’aria, isolare dai rumori senza spendere in finestre doppie e per mettere il gestore al riparo da cause per danni nel caso un ospite infelice decida di usarle come uscita, producono un soffocante senso di claustrofobia.
Il piumone. Mio antico nemico giurato, è finto lusso che nasconde la prepotenza del tutto o niente. O dormi a sedere scoperto o ti devi lessare sotto. E non si può rimboccare.
La mancia. Momento di insuperabile imbarazzo. Si finisce inevitabilmente per dare troppo o troppo poco, passando per babbei o per tirchi. Viva gli alberghi giapponesi dove la mancia è proibita.
Le pareti sottili. Per quanto sia professionalmente interessato alla vita degli altri, c’è un limite alla mia sopportazione delle urla della vicina che finge orgasmi sismici a ripetizione per compiacere il partner.
La tecnologia impazzita. Per giustificare prezzi da riscatto, sempre più alberghi affidano le funzioni più elementari, come tirare la tenda o accendere l’abat-jour a bottoniere di comandi da cabina di pilotaggio di un caccia. Non tutti siamo smanettoni ansiosi di capire perchè sia necessario un robot per spegnere la luce.
La lucina rossa. È quella implacabile lampadina, oggi “led”, che lampeggia al telefono per indicare che c’è un messaggio per te. Per arrivare a spegnerla e impedirle di lanciare segnali nel buio, il centralino automatico impone un percorso di premi questo e digita quell’altro che lascia la lucina rossa accesa.
Gli “extra”. Misteriose creature che si riproducono e si diffondono come le minuscole cimici che stanno infestando gli alberghi di New York appaiono dal nulla nel conto e pizzicano. Vivono, parassiticamente, sulla fretta del viaggiatore che è sempre in ritardo e non ha il tempo di aprire un contenzioso contabile con il cassiere.
I materassi soffici. Quasi sempre accompagnati da guanciali vaporosi (e dal temuto strapuntone d’oca) rovinano le schiene più solide e sono i migliori amici degli ortopedici e dei produttori di antidolorifici.
Le prese di corrente. Abilmente piazzate nei luoghi più irraggiungibili, sono studiate per evitare che gli ospiti ci attacchino computer, asciugacapelli, apparecchiature elettriche, costringendoli ad acrobazie e contorsioni. La loro collocazione è probabilmente studiata dagli stessi ortopedici, osteopati, chiropratici, massaggiatori e farmacisti che forniscono materassi molli e cuscini di piuma.
Ultimo, il Menu Video. Sul televisore regna il Menu che propone un vasto assortimento di servizi inutili, brutti film e pornovideo che ormai solo alcuni disperati senza Internet, e i bambini che non dovrebbero guardarli, guardano. A proposito di Internet. Meritano una particolare menzione di odiosità gli alberghi italiani che ancora pretendono pagamenti per il wi-fi.
E con questo, ho finito e mi metto a dormire. Sempre che riesca a scoprire la combinazione per chiudere le tende e spegnere la luce.

Quello che i pediatri americani non dicono

di Vittorio Zucconi

Nella sala d’attesa del pediatra, tra le immancabili giraffe alle pareti e i palloncini flaccidi, sternuti e colpi di tosse esplodono in una bomba biologicia naturale e appiccicosa. Una ricerca letta su un settimale logorato sostiene che nelle sale d’attesa pediatriche i bambini prendano più infezioni di quante il medico guarisca, statistica che in segreto, molto in segreto, il vostro pediatra potrebbe confermare almeno nella parte che riguarda le cure. Perché lui o lei sanno che la stragrande maggioranza delle afflizioni che spingono a trascinare il piccino nel suo studio guarirebbero perfettamente con quel farmaco del quale ormai pochissimi dispongono, il tempo. Senza ricette, pasticche, sciroppini.
Un pediatra celebre che teneva una rubrica di consigli per la network Cbs fu cacciato dal programma quando sbottò a una mamma che gli chiedeva la corretta posologia di un famoso sciroppo antiinfluenzale di “versarlo tutto in un volta dentro il lavello di cucina. Sarebbe l’uso migliore, perché non serve a niente ma eviterebbe che il bambino se lo bevesse tutto per errore”. La Grande Casa Farmaceutica che lo produceva ne chiese e ottenne la testa.
In questa stagione di fine inverno, il consumo di medicina pediatrica diventa parossistico. Con sei nipoti di età inferiore agli otto anni so che non passerà settimana senza che figlia o nuora ne trascinino uno del dottore, solo per sentirsi dire, nove volte su dieci, quella frase che devono insegnare nelle migliori scuole di specialità: “C’è in giro un sacco di questa roba, signora”. Nutrici e parenti non pensano, sollevati dal mal comune, che la stessa risposta avrebbero potuto dare ai loro pazienti i medici milanesi del Seicento durante la peste.
La combinazione di rimorsi genitoriali, ipocondria, pezzi di infarinatura medica inghiottiti dalla televisione e dalla rete producono una miscela esplosiva di ansie e di ricorsi al “dottore” sconosciuta a una generazione precedente.
I miei figli americani inorridirebbero al pensiero che quegli sciagurati dei miei genitori non avevano mai provveduto a quelle sei visite di controllo entro i primi dodici mesi di vita – dunque una ogni due mesi – che oggi sono di norma, e che il viaggio nello studio pediatrico era per noi un evento rarissimo. Il protocollo standard per ogni nostro malanno erano la spremuta di arancia nell’evento di temperatura elevata, la brutale limonata calda per imbarazzo gastrico o, nei casi più disperati, l’efferato clistere. Penicillina raramente. Più spesso pappine calde da ustione di terzo grado.
Decenni più tardi, scopro, leggendo uno più riveriti pediatri americani, il dottor Robert Lindeman, che quel protocollo era quello più indicato. In un saggio dal titolo provocatorio, Gli sporchi segreti del vostro pediatra spiega che il 90 per cento dei piccoli pazienti che lui riceve non ha alcuna necessità di cure o medicine particolari. E che quegli orrendi sintomi che hanno spinto i genitori a prendere un giorno di permesso, litigare col coniuge o mobilitare i nonni, sarebbero scomparsi da soli in pochi giorni di riposo.
“Vorrei poter dire a quei genitori che fortunatamente la stragrande maggioranza delle patologie infantili si curano per la forza della natura, ma non glielo posso dire”. E qui sta lo “sporco segreto”. I pediatri di famiglia in un sistema sanitario privato devono per forza riempire le loro sale d’attesa, perché “soltanto il volume dei pazienti assicura la copertura delle spese di esercizio e un reddito adeguato agli anni di studio e di pratica”.
I bambini americani costano 300 miliardi di dollari per la loro salute e la cifra sembra raccontare la storia di una generazione di pccoli infermi, quando è vero il contrario. “Non abbiamo mai avuto una generazione di bambini così sani, così robusti, così immunizzati, così ben nutriti come abbiamo oggi, ma noi dobbiamo sprecare ore e ore per bambini sani, sottraendo tempo e risorse ai pochi davvero malati”.
E gli sciroppini, dottore? “Buttateli nel lavandino”, raccomanda anche lui, che non ha un programma alla radio. Ma quei puntini rossi, quel vomito, quella cacchina, dottore? “Ce n’è un sacco in giro, signora”.

Quella volta che volevo comprarmi una pistola

di Vittorio Zucconi

Una volta ero in Texas, in un nulla chiamato Crawford, villaggio dove si va soltanto se ci si sbaglia di strada o se ti pagano per andarci, come nel mio caso. Crawford è binario di una ferrovia senza passaggio a livello. Due strade polverose asfaltate di fretta per ragioni che vedremo. Un solo semaforo lampeggiante giallo all’incrocio che oscilla nel vento. Quando mi fermai per disperazione e crampi a una baracchetta di Burger King ai bordi di un strada, la ragazza factotum mi disse che ero il primo straniero che avesse mai visto in vita sua. Mi guardava come nel film Men in Black, aspettandosi che dalla pancia mi spuntasse un tentacolo. Ma a Crawford Giorgino W Bush presidente aveva comperato un ranch, genere “JR” in Dallas, che usava come set per fingersi un cowboy e per ricevere ospiti di Stato. Da qui l’asfalto fresco sulla polvere. Quella volta c’era finito anche Berlusconi, e dunque anche io.
C’era un solo grande negozio, un “emporio” che vendeva di tutto. Pelli di vacca e selle. Cappelloni e cartoline di gusto raffinato, con donne in sottanina a frange di pelle e sopra l’invito “Ride Me Cowboy!” , cavalcami cowboy. E poi armi. Una vetrina intera. Neppure so perché, forse furono la noia straziante in attesa di scrivere il pezzo, il pensiero di una moglie sola e isolata per giorni in una Washington che allora era un campo di battaglia, rapine, stupri e 700 morti ammazzati all’anno su 300 mila abitanti, più che in tutta l’Italia. Chiesi di comperare una pistola. Piccola, nikelata, una calibro 22, da “signora” si dice, leggera, un giocattolo. Appena 150 dollari, il prezzo di un paio di scarpe.
Quanto tempo si ferma a Crawford? Mi chiese la padrona che riconobbi come la donna che nelle cartoline invitava a “farsi cavalcare” vent’anni prima. Due giorni. Aaaaahhhh, sorry, non posso vendergliela. Quei delinquenti del governo pretendono tre giorni di attesa per le verifiche dell’Fbi. Poi mi fece cenno di avvicinare la faccia alla sua bocca scarlatta che emanava effluvi di cicca alla menta. Sottovoce: “Ma domani a Waco, venti minuti da qui, c’è una mostra mercato delle armi e ne può comprare una antica”. Quanto antica, chiesi pensando alle Colt di Jesse James o di Wyatt Earp. “Un anno”, rise, porgendomi il depliant.
Naturalmente, non comperai nessuna pistoletta in quella fiera. Ma la tentazione fu forte. La pressione psicologica, la paura, l’ansia di sentirsi l’unico disarmato al fronte possono farsi irresistibili. Come oggi le maestrine e i professori dello Utah che stanno saccheggiando gli armaioli e i centri commerciali per armarsi, nel timore che Obama riesca a limitare un po’, soltanto un po’, l’arsenale, come la “rezdora” dei ranch alla frontiera dell’Oklahoma con il Winchester decisa a vendere cara la pelle contro i bovari che le distruggevano i campi con le mandrie di passaggio.
Le armi sono terrificanti e bellissime. Le pistole sono deliziosamente ergonomiche, si accoccolano nella mano come un gattino addormentato di poche settimane. Sono facilissime da usare. I fucili semiautomatici d’assalto sono più ingombranti, ma in compenso danno l’ebrezza del Rambo, il brivido di onnipotenza. Ne imbracciai uno, il modello d’ordinanaza militare, M16. Vomitano raffiche in poche secondi, falciano un cinema, un ufficio postale, un’aula di bambini. Diventi la Grande Falciatrice, non più colui che teme morte, ma colui che la dispensa, la esorcizza facendosene esecutore, tiene sotto il dito il potere divino di decidere ora, qui, rat-tat-tat chi muore e chi vive. Rende il più debole degli esseri umani, il più imbelle e flaccido degli uomini, il più ridicolo e schernito, più forte di un peso massimo con medaglie d’oro. La livella, appunto. Davanti alla bocca di una pistola o di un fucile d’assalto siamo tutti uguali, belli e brutti, ricchi e poveri, signori e lazzaroni.
Ogni volta che devo leggere e scrivere di stragi ripenso all’emporio di Crawford, Texas, a quel mio attimo di follia. Mi limitai a comperare una cartolina con lei giovane che mi invitava a galoppare. Non ebbi il coraggio di spedirla a nessuno. La gettai in un cestino insieme con il depliant della fiera della morte.

E intanto Cenerentola se la ride

di Vittorio Zucconi

La bella signora spalancò i grandi occhi celesti sugli acquitrini vergini e disse: “Qui sorgerà la mia reggia e la chiamerò Versailles”. Aveva sposato l’uomo più potente del regno. Gli aveva garantito la successione dinastica dandogli quattro figli e allevandogliene altri quattro avuti da mogli precedenti e da varie favorite. A quarant’anni, con le prime ditate del tempo su una luminosa bellezza, che i migliori restauratori e scalpellini di corte riuscivano a mascherare pompando, stirando, ricucendo, la signora aveva preteso come ricompensa non ori e preziosi, che già possedeva a bauli, nè altri valletti e cameriere, dei quali già disponeva a frotte. Voleva qualcosa che nessun’altra donna avesse: la casa più grande che mai fosse stata costruita nel regno. Un castello di 11mila metri quadrati di abitazione, nel mezzo di ettari di giardini. Più del doppio della Casa Bianca, che è di appena cinque mila metri quadrati, uffici inclusi.Più alto e incantevole di un’altra reggia vicina: il Castello Incantato di Cenerentola.
Lo sposo, di quasi trent’anni più anziano di lei e ansioso di compiacere la regina, ingaggiò i migliori architetti, ingegneri, paesaggisti, muratori, marmisti, pittori, arredatori, stradini. Dai propri forzieri pescò 200 milioni di dollari, perchè ogni desiderio, ogni capriccio della bella signora fosse soddisfatto.
Lavorarono per un anno, soltanto per aprire strade, bonificare, gettare tubature, alzare pali, creare il cantiere e le prime impalcature di Versailles. Tutto sotto lo sguardo celeste della padrona alla quale poco sfuggiva perché dietro la sua aria ingannevole da ocona bionda, aveva una laurea in ingegneria civile e non le scappava nemmeno un chiodo storto.
Poi venne la strega, non a cavallo di una scopa né con nasi bitorzoluti, ma vestita di grisaglie e calzata di mocassini italiani, reggendo non una mela avvelanata, ma una scatola di cartone.
Era la strega Wall Street, che nella tarda estate del 2008 piombò su Jackie Siegel, sulla bella regina, e sul suo Re Sole, David Siegel. Nell’incantesimo del nulla finanziario trasformato dalla sera alla mattina in sortilegio, i Siegel scoprirono di non possedere null’altro che debiti.
Quei tesori che avevano pescato dai forzieri erano crediti, pezzi di carta, ruttini elettronici scompasi su monitor spenti. L’impero delle multiproprietà per vacanze sulle quali David aveva regnato divenne un deserto di debiti, di cambiali, di crediti tossici, di appartamenti invendibili, di mutui sanguinanti. Migliaia di commessi imperiali attraverso tutta l’America furono messi per strada. Dei diciotto uomini e donne che accudivano Jackie e i figli, soltanto un’anziana signora hondurena, che l’aveva cresciuta come una madre, rimase con lei.
Da padrona di un castello fatato che lei aveva battezzato “Versailles”, proprio nel cuore della Florida, nella regione di Orlando, per rivaleggiare con il Castello Incantato di Cenerentola, Jackie Siegel divenne soggetto di un docufilm a modo suo commovente e premiatissimo.
Dal settembre del 2008, neppure un chiodo è stato più conficcato. Neppure un secchio di malta è stato rovesciato.
La Regina di Versailles, come s’intitola il documentario che sembra un film prodotto da un Disney con la gastrite, vive in una casetta a un piano di appena 200 metri quadrati, con il marito e i quattro figli minorenni, che non sono proprio pochissimi, ma a lei devono dare la sensazione di essere la vecchina che viveva dentro lo stivale. E, insieme con le impalcature corrose, anche i tralicci e i posticci che tenevano insieme la sua bellezza cominciano a traballare, in attesa di nuovi, costosi restauratori. Ha cercato lavoro, ma per un’ingegnere di 45 anni al primo impiego non c’è nulla.
La reggia, o quel che ne resta, è stata messa in vendita per soli 65 milioni di dollari. È appena il costo del terreno, delle fondamenta, delle strade private, delle opere di urbanizzazione e della bonifica delle paludi attorno alla Versailles che non ci sarà e che gli alligatori della Florida stanno placidamente riprendendosi.
Dall’alto del proprio castello rimasto senza rivali all’orizzonte, Cenerentola ride, la carognetta.

Donne contro l’Apocalisse

di Vittorio Zucconi

Dawn Hochsprung la preside e Mary Scherlach la psicologa erano chiuse nell’ufficio di presidenza per discutere il caso di un bambino difficile, come ci sono in tutte le classi di tutte le scuole del mondo. Quando sentirono grida nel corridoio, le due donne corsero fuori. La prima a cadere fu Dawn la preside, prima ancora di poter capire. Aveva capito invece benissimo Mary, e non perchè fosse psicologa, ma perchè la vista di un uomo con un fucile da combattimento che vomitava fiamme e proiettili si spiegava da sola. Raccolse i 56 anni della propria vita e li lanciò contro quell’uomo, illudendosi di fermarlo. Fu la seconda a morire, nella scuola di Sandy Hook nel Connecticut, con tre proiettili in corpo e in testa.
Sono trascorse settimane da quel 14 dicembre di ineffabile orrore. I funerali sono finiti, i discorsi si sono spenti, le poche leggi che sono state proposte aspettano il nuovo Parlamento americano il 20 gennaio, che dovrà discuterle e, forse approvarle, sapendo bene che serviranno a ben poco. Ma prima che tutto sia dimenticato, o archiviato sotto la spinta del tempo e di altre storie, voglio dire addio a quelle donne che abbiamo trascurato, nel giusto strazio per i nostri bambini – nostri perchè i bambini appartengono a tutti – uccisi.
Ci sono state eroine, in quella scuola, tutte donne di tutte le età, ragazze fresche di prima cattedra ed educatrici veterane, grazie alle quali le venti bare deposte nel cimitero di Newtown non sono state quaranta, o sessanta, o cento, perchè l’assassino ha sparato cento colpi e ne aveva altrettanti nei caricatori di scorta.
C’è stata Victoria Soto, di 27 anni, che ha ordinato ai bambini della sua prima elementare di nascondersi e pigiarsi negli armadietti, sotto i banchi, sotto le pile dei giubboti e dietro gli zaini spesso più grandi di loro e ha aspettato la morte sulla porta dell’aula. Quando si è avvicinato il Rambo con le sue armi fumanti gli ha detto calma, come se desse un’informazione su una via a un passante: “Qui dentro non c’è nessuno, sotto tutti a ginnastica”. Pur di non perdere l’occasione, l’omicida l’ha fatta fuori e poi si è allontanato. Dietro la porta c’erano ventotto bambini silenziosi, che hanno avuto salva la vita.
Diane Day cercò invece di chiudere la porta a chiave, dimenticando che le porte delle aule non hanno serratura. “Tutti giù per terra, tutti giù” disse ai suoi ventisei scolaretti di seconda e poi fece l’unica cosa che le venne in mente. Appoggiò la schiena alla porta, aspettando, cercando di spingere e di bloccarla con il corpo. Sentì la maniglia muoversi contro la sua schiena, abbassata dalla mano dell’assassino, e spinse con tutta la forza che aveva. I proiettili da guerra non ebbero nessuna difficoltà a penetrare il legno della porta e abbatterla. Ma anche questa volta, Lanza, il giovanotto omicida, rinunciò a entrare nell’aula e continuò altrove il suo viaggio.
Maryrose Kristopik era l’insegnante di musica. Sentì dall’altoparlante, che una mano provvidenziale aveva acceso perchè tutti potessero sentire capire che cosa stava accadendo, i colpi secchi e inconfondibili di un fucile semiutomatico. Cercò di barricare la porta con quello che aveva, banchi, strumenti musicali, anche uno xylofono adoperato per fermare la maniglia, come se pifferi, tamburelli, trombette potessero fermare un assalto a mano armata. Poi, anche lei appoggiandosi alla porta, chiese ai bambini di stare zitti, di non fare il minimo rumore, di giocare al silenzio e cominciò a ripetere “vi voglio bene, vi voglio tanto bene”. “Volevo che fosse quella l’ultima cosa che sentissero prima di morire”. Maryrose e i suoi piccoli musicisti silenziosi non morirono. L’assassino ignorò la sua aula.
Sono stati sette, gli adulti che hanno sacrificato la propria vita per salvare quella di chissà quanti alunni, o anche soltanto, come aveva cercato di fare l’insegnante di musica, per risparmiare a loro la coscienza di che cosa stava avvenendo e il terrore.
Si può usare per loro una delle parole più logore, più abusate, spesso più vuote del nostro vocabolario e della retorica ufficiale, eroi? Credo che si possa. Grazie, signora maestra.

Tanti auguri Mrs President

di Vittorio Zucconi

Dice: “Sono vent’anni che non dormo, non vedo l’ora di poter ignorare la sveglia”. E poi ride con quella sua risata squillante da ragazzina che riaffiora dal fondo dei suoi sessantacinque anni. È lei, la signora Hillary Rodham più che mai coniugata Clinton, la donna della quale più si parla e si spettegola e si strologa nell’America di fine 2012 che pure ha appena finito di rieleggere Barack Obama, ma già pretende un nuovo giocattolo, perchè siamo peggio dei bambini il giorno di Santo Stefano con i regali di Natale che già annoiano.
Se le elezioni per la Presidenza si tenessero oggi, Hillary vincerebbe a redini abbassate, ma per fortuna degli Stati Uniti non ci sono né santi né tempeste né fucili di assassini che possano anticipare il voto. Quattro anni sono e quattro anni resteranno. E questo quadriennio, che in politica equivale a un’era geologica, sono insieme l’incubo e la tentazione di questa donna eccezionale.
Vi risparmio i sondaggi, pestilenza del nostro tempo, e basti sapere che tutte le categorie, le classi sociali, i generi, la vedono in grandissimo vantaggio sopra ogni altro possibile concorrente. “Non c’è semplicemente nessuno, tra noi Repubblicani, che possa sfidarla”, ha riconosciuto un ex boss della destra, Newt Gingrich.
Hillary sta civettando con il futuro, con i media, forse anche con se stessa. Non farà il sindaco di New York, perché avrà i suoi difetti ma scema non è, e fare il sindaco di una città così presenta ogni giorno il rischio di precipitare in una delle leggendarie buche nell’asfalto di Manhattan. Vuole viaggiare per divertimento, non certo per lavoro, visto che sull’aereo ufficiale del Dipartimento di Stato, dove ha un mini separé privato, nulla di paragonabile alle suite dell’Air Force One, ha percorso un milione e settecentomila chilometri in meno di quattro anni, più di mille chilometri al giorno. Forse scriverà le sue memorie, perchè deve ripagare 73 mila dollari di debito che lo sono rimasti dalle primarie 2008 contro Obama e il marito non intende affatto ripianarglieli. Invece, con i soldi di Bill stanno cercando casa insieme negli Hamptons, il quartiere più esclusivo di Long Island, a mezz’ora da Manhattan.
Nel 2017, l’anno nel quale sarebbe insediata come primo presidente femmina nella storia americana, avrebbe 70 anni, un’età che la metterebbe nella ristrettissima lista di capi di Stato americani settuagenari, accanto a Ronald Reagan, che fece scandalo proprio per l’età. Ma da allora la percezione e la realtà degli anni pare sia cambiata, e si dice che si debba sottrarre una diecina dall’età anagrafica, dunque che i 60 siano i nuovi 50, i 70 i nuovi 60 e così via riducendo. Dicono.
Dovrà decidere, perchè è una donna, quale nuova pettinatura scegliere per questa sua traversata nel dubbio, se tagliarli corti come faceva una volta, lasciarli lunghi, tirarli e raccoglierli a crocchio, e come vestirsi, ora che è una civile. Nella campagna elettorale del 2008 contro Obama ebbe l’intuizione di indossare sempre un solo tipo di abito con qualche variazione di colore, ma non di taglio, il suo famoso tailleur pantalone, studiato per spazzare via il solito esame finestra dell’abbigliamento che viene riservato alle donne in posizioni di potere. Anche da parte delle donne, che poi rimproverano agli uomini di farlo.
“Non ho deciso proprio niente”, ride e poi aggiunge con quel suo sguardo insieme malizioso e serio che quarant’anni or sono sedusse uno studente di Yale, William Jefferson Clinton, e sembra incredibile che questi due, con quello che hanno passato, siano ancora sposati dal 1974: “Ma non ho nenche deciso di decidere”. Poi: “Se penso alle primarie, ai comizi nello Iowa, al freddo, a quei milioni di mani da stringere mi gira la testa e mi viene la nausea”. Ma se ora davvero intende tornare a vivere giorno dopo giorno, tutti i giorni dell’anno, accanto al marito nella nuova casa a Long Island, tanto varebbe continuare a vivere insieme in un’altra casa, quella tutta dipinta di bianco con le colonne davanti. Questa volta con lei sopra, lui sotto e niente pizze per le stagisti.

Niente stelle per Rebecca

di Vittorio Zucconi

Rebecca sentiva molto il fascino della divisa. Ma non indosso agli uomini, indosso a se stessa. Nata e cresciuta in una famiglia militare, al seguito del padre sballottato come una biglia da flipper, Rebecca Edwards s’innamorò dell’atmosfera, dei valori, del senso di appartenenza e di sicuezza che quelle uniformi le trasmettevano. “Mi resi conto che le forze armate sono come una famiglia estesa su tutto il pianeta”.
Quando venne per lei il momento di andare all’università, decise di arruolarsi nel corso allievi ufficiali chiamato Rotc, che offre agli studenti un’educazione militare parallelamente a quella accademica e un grado da tenente alla fine dei corsi. Oltre a coprire il pagamento della mostruosa retta universitaria, che nel suo caso era arrivata a 102 mila dollari.
Si iscrisse al corso per infermiere nell’Air Force, l’aviazione, firmò il contratto con il ministero della Difesa e arrivò il momento della laurea che coincide con il giuramento e l’entrata in servizio.
Non arrivò mai. Invece della nomina, arrivò una comunicazione del colonnello comandante il suo reparto di cadetti per informarla che era stata espulsa dalle Forze Armate e non sarebbe potuta mai diventare ufficiale di Aviazione. La causa, spiegava il signor colonnello, era che lei aveva dichiarato il falso nella domanda di iscrizione al corso allievi ufficiali. Seguiva richiesta di restituire i 100 mila dollari della retta.
La menzogna era davanti a lei, che si rotolava sul pavimento e se la faceva addosso. Era il figlio che lei portava nella pancia quando aveva fatto domanda e aveva risposto “no” al quesito se ci fosse qualche cosa da segnalare. E poiché aveva partorito prima che cominciassero i corsi militari, nessuno fra i superiori come fra gli altri cadetti e cadette si era potuto accorgere che Rebecca era stata tanto “malata”. Sofferente di gravidanza acuta.
Nel mondo delle uniformi che ormai finalmente accetta omosessuali maschi e femmine, che ospita a bordo delle grandi portaerei anche ostetrici e ginecologi per assistere le donne dell’equipaggio che spesso sbarcano portando con sè qualcosa più del sacco sulla spalle, la gravidanza e la maternità sono ancora considerate come impedimenti squalificanti. Anche per chi, come Rebecca Edwards, voleva assistere pazienti, non pilotare caccia bombardieri.
Poi si è scoperto che la “falsa dichiarazione” nel formulario era naturalmente un pretesto. La vera ragione per negare a quella giovane donna l’uniforme azzurro cielo che si era fatta tagliare su misura, ufficiale e gentildonna, era il suo essere una mamma single non sposata con il boyfriend che l’aveva messa incinta. Un uomo che non aveva manifestato nessuna intenzione di accettare il famigerato “matrimonio riparatore”.
Invano, il padre e la madre di Rebecca, una coppia ancora giovane nei loro cinquant’anni, entrambi benestanti, lui con la pensione da ex sergente maggiore e un posto di manager in un grande magazzino, lei insegnante di scuola materna, scrissero al Pentagono per assumersi la responsabilità di accudire quel bambino durante le assenza della madre.
Il colonnello prima e i generali poi sono stati inflessibili. La accusano di avere mentito, ma non si capisce bene che cosa avrebbe dovuto fare, se avesse detto la verità. “Avrei dovuto abortirlo contro la mia volontà? – ha scritto – È questo che il Pentagono vuole dalle soldatesse che restano incinta? Avrei dovuto partorirlo e poi affidarlo in adozione, per essere più serena durante le missioni, come se una madre che ha voluto un figlio e poi lo deve dare via senza alcun motivo potesse non pensare a lui ogni giorno della propria vita?”.
Il sospetto è che, dietro le spiegazioni ufficiali, la cacciata di Rebecca segnali quei residui di moralismo e dunque di discriminazione verso le donne che legalmente non dovrebbe più esistere. E che in fondo in fondo a molti generali le donne in uniforme non piacciano e che trovino qualsiasi pretesto per non ammetterle. In servizio, s’intende, perchè invece sotto la tenda o in branda, per scaldare le loro fredde e solitarie notti al fronte, ai generali a quattro stelle le donne nell’esercito piacciano anche troppo. Senza uniforme e, megli ancora, senza vestiti.

Il maschio alfa salvato da un regalo

di Vittorio Zucconi

Uno strano rumore si alza dai caminetti e dagli addobbi natalizi americani. È una cacofonia di ronzii e tonfi, un frinire di motorini elettrici, un grattare di lime e battere di martelli che domina la colonna sonora delle Feste duellando con l’ormai insopportabile Jingle Bells e le nenie sciroppose della tradizionali càrole. Comincia a essere udibile, come il brontolio di un temporale lontano, alla fine di ottobre, quando i venditori gettano i semi che sperano di vedere poi fruttificare a Natale, specialmente nelle ore del panico finale e degli acquisti con il cuore il gola.
È l’arsenale di trapani elettrici che oramai chiamare trapani è come definire la Filarmonica di Berlino una banda della polizia municipale, perché dall’originale attrezzo con punte per fare buchi di vario calibro, quell’arnese è divenuto un mostruoso “transformer” capace di ricostruire un’intera casa.
Dopo la scellerata cravatta, il maglioncino destinato per direttissima ai cassetti o la boccetta di profumo che la vittima si spruzzerà una volta per lasciarla poi essiccare serenamente, per la gioia di parenti e amici, lo handyman tool, l’attrezzo per colui che vuol fare tutto da solo, è il regalo più diffuso per uomini, compresi quelli che “hanno tutto”. Il trapano elettrico, chiamiamolo così, è come i telefonini o i tablet: trova sempre modo di ripresentarsi in versioni diverse e apparentemente più capaci, per creare l’incentivo a comperarlo. In nessuna altra nazionale questo regalo è altrettanto diffuso come negli Stati Uniti, anche se la cultura del bricolage – o del “DIY” (do it yourself, fai-da-te) è radicata ovunque.
L’industria dell’arrangiarsi da soli a riparare o modificare la propria abitazione produce più di 150 miliardi di dollari all’anno in vendite per le dozzine di aziende che si sgomitano per dotare ogni maschio americano di uno handyman tool e illustrano l’irrisoria facilità con la quale il loro attrezzo permette di fare qualsiasi cosa. Finiti i tempi della semplice punta per trapanare, si arriva a 150 possibili accessori, assortimenti capaci di far vergognare il più colto dei coltellini svizzeri.
Il pretesto per acquistarli e regalarli a Natale (o per la Festa del Papà) è naturalmente il risparmio, quel mito del “ghe pensi mì” che induce i consumatori a buttare tonnellate di soldi credendo di spendere meno. E se effettivamente qualche superdotato riesce a evitare l’occasionale riscorso all’idraulico, al carpentiere, al muratore, generalmente il miracoloso transformer è destinato a languire nella cassetta degli attrezzi, perdendo nel labirinto della vita accessori, pezzi, adattatori, chiavette, batterie. O, peggio, finisce per produrre lavori incompiuti che costringono all’ingaggio di un professionista che dunque costerà il doppio, per porre rimedio ai guasti e poi fare quello che si sarebbe dovuto fare. Più alto è il costo dell’attrezzo e più lo sarà la spesa in liti, discussioni e medicinali per controllare l’ipertensione e le cefalee.
Ma naturalmente non è l’utilità pratica di questi arnesi a spiegarne il successo. Come famosi show televisivi di grandissimo successo hanno raccontato con grande ironia, il trapano elettrico è un simbolo fin troppo ovvio di virilità, un Viagra a motore per la vacillante vanità degli uomini. Impugnando quel coso, anche se soltanto il giorno di Natale, papà tornerà a sentirsi, per qualche ora, insieme il Lupo Alfa, l’Homo Faber, lo Stallone Instancabile, dotato di 150 prolunghe e accessori. Se poi servirà realmente ad appendere un quadro, a segare la gamba di un tavolo, a rimettere in sesto l’anta di un pensile in cucina, tanto meglio. Ma l’utilità pratica è un accessorio, un bonus. La sua vera funzione è restituire al depresso maschio americano, insidiato nella propria crepuscolare supremazia, l’effimero brivido di sentirsi per un istante di nuovo “il macho” e il pioniere che conquistò un continente con un martello, una sega e una Colt. Si somigliano quando vengono impugnati, i trapani e i revolver, ma fanno – anche tra le dita di imbranati totali come me – meno danni di un Colt. Almeno agli altri.

Corteggiarsi dalle nove alle cinque

di Vittorio Zucconi

Fra i tanti pericoli che una storia come quella fra David e Paula, fra il generale e la scrittrice comporta, c’è quello di cadere nel “maccarthysmo sessuale”. Nell’abbandonarsi a una caccia alle streghe del sesso come se qualsiasi relazione amorosa fuori dal seminato dovesse necessariamente portare alla rovina terrena dei partecipanti, in attesa dell’eternità a soffriggere in una padella infernale. La distruzione di David Petraeus e della sua super biografa Paula Broadwell, oltre che dei rispettivi coniugi, può spingere a pensare che ogni e qualsiasi storia d’amore nata sul luogo di lavoro sia l’equivalente di una centrale nucleare scoperchiata e fusa.
Non è vero, e lo è sempre meno. Anche se un campo di battaglia in Afghanistan non può essere considerato come l’ufficio paghe e contributi di una qualsiasi azienda, era sempre quell’universo del lavoro che oggi è la principale incubatrice di storie e di incontri. L’Office Romance, l’amore nel tempo dei terminali, dei cubicoli, dell’officina, delle scrivanie non è da tempo più l’eccezione, ma la normalità. Se tre donne su quattro lavorano fuori casa negli Stati Uniti, quello, non più la chiesa, la scuola, la spiaggia, il circolo, o il deprimente “mercato della carne” al banco di un bar per rimorchiare o essere rimorchiati dopo adeguate ingestioni di alcolici nel week end, sarà il luogo dove nascono relazioni.
A dispetto del pregiudizio negativo sugli amori effimeri da ufficio, più di una relazione su tre (il 38 per cento, se volete essere pignole) finisce con un matrimonio, e la metà conduce a una convivenza prolungata almeno di sei mesi, salvo complicazioni. Le proverbiali “sveltine” sono una piccolissima parte.
Proprio la diffusione dell’amore all’ombra del boccione dell’acqua ha imposto nuovi codici di comportamento che non sono il “maccarthysmo sessuale” del puritanesimo bacchettone, ma di buon senso e di regole. Il confine fra la classica “corte” e il mobbing o le molestie deve essere chiaro e spiegato bene al personale. Cortesia, sorrisi e manifestazioni di simpatia non devono essere interpretate come segnali che “ci sta”, errore nel quale molti uomini, nella certezza vanesia del proprio irresistibile fascino, cadono, con conseguenze pessime per tutti.
Si dovrebbero evitare relazioni troppo squilibrate nel livello professionale dei colombi, genere Bill Clinton, Presidente degli Stati Uniti con Monica Lewinsky, stagista. Il progresso delle donne nelle loro carriere è destinato, nel tempo, a rendere meno sbilanciato il terreno del gioco amoroso, anche se non si possono escludere a priori autentici innamoramenti fra piani diversi. Bill Gates, il multimilairdario creatore della Microsoft ha sposato una sua modesta dipendente, Melinda French, un’impiegata che aveva, inaspettamente per lei che ci rimase di sasso, invitato a cena. Sono coniugati da ormai 25 anni, dunque non si trattò dell’avventura del “sciùr padrùn” con la segretaria.
Barack Obama violò un poco la legge non scritta della bilancia, sfacciatamente invitando a uscire la propria diretta superiora, Michelle, ma la cosa si risolse abbastanza bene e senza querele, pur essendo entrambi avvocati. E anche Bradd Pitt e Angelina Jolie, che si erano conosciuti nel loro ufficio, il set di Mr. and Mrs. Smith dove erano co-star, hanno deciso quest’anno, dopo matura riflessione, sette anni di convivenza, tre figlio naturale e tre adottivi, di sposarsi.
Anche il contrario, il puntare troppo in alto, è tanto rischioso quanto il pescare ai piani inferiori. Lisa Nowak, furiosamente gelosa di una collega che le aveva portato via l’amor suo, Wlliam Oefelein, raggiunse notorietà internazionale quando guidò senza sosta fra il Texas e la Florida per raggiungere William prima che sposasse la rivale e indossò un pannolone per non perdere tempo in soste. La sua corsa disperata fu vana e lei ebbe un anno con la condizionale perchè accecò temporaneamente il traditore con spray al pepe.
William Oefelein era un astronauta della Nasa. Lisa aveva puntato troppo, troppo in alto, fino alle stelle.

Scusate per aver volato con noi (30 novembre)

di Vittorio Zucconi

L’odio è un lusso che raramente mi concedo. Sono troppo pigro per odiare davvero, troppo distratto per ricordarmi a chi non dovrei più rivolgere la parola. Ma il piccolo gruzzolo di ostilità che possiedo lo spendo volentieri per un’industria che da mezzo secolo mi tormenta e che ogni anno peggiora: l’industria del trasporto aereo. Le ho provate (anzi, subite) tutte, in ogni ordine di classe e di servizio, dall’Estremo Oriente all’America Latina, e le peggiori, dopo la mai troppo prematura fine dell’Aereoflot sovietica, sono quelle americane.
Time, il serissimo settimanale, ha fatto una lista delle ragioni principali per aborrirle e le sottoscrivo tutte. Eccone alcune che, se mai avete volato, forse sottoscriverete.
Il sistema dello “hub”, del mozzo e dei raggi della ruota, lo scalo dal quale si deve per forza passare per cambiare aereo, rischiando ritardi, soste interminabili o corse a perdifiato. Una delle linee aeree americane, la “Delta”, ha il proprio “hub” ad Atlanta. Un amaro detto fra noi passeggeri avverte che anche per andare all’inferno si dovrà cambiare aereo ad Atlanta.
Le “Mille e Una Miglia”. Per quante ne vengano accumulate in anni di volo – ne possiedo ormai ben oltre il milione di Marco Polo – non ci sono mai posti disponibili, se non “in bassa stagione”. È il periodo che va dalla mezzanotte del 31 dicembre alle sei del mattino del 1 gennaio. Negli altri giorni, niente da fare.
L’eccesso bagaglio. La quantità di valigie trasportabili senza pagare extra si è ormai ridotta a un portacipria o portafoglio se va bene. Per tutto il resto, si paga extra. Una scelta che spinge il povero cliente a gonfiare borsoni e bustone porta abiti insaccati in quella che poeticamente si chiama “cappelliera”, pur non contenendo da decenni alcun cappello.
Le gambe in spalla. Avendo scoperto, dopo attente ricerche e studi scientifici, che aggiungendo più file di seggioloni atroci si aumenta il numero di passeggeri trasportabili, lo spazio fra le ginocchia e la spalliera davanti è scomparso e il sedile reclinabile è uno scherzo di cattivo gusto. Ma in compenso le compagnie ammoniscono contro il rischio di crampi o addirittura di trombi da immobilità, suggerendo esercizi per la circolazione da compiere con il ditone del piede.
Il cibo. Indescrivibile. O inesistente. Molte compagnie americane vendono, per cifre da ristorante a tre stelle, orrende pagnocche e scatole di crackers, ai paria della classe economica. E non parlo delle “low cost” dove non si possono addentare neppure le coperte e i cuscini, non disponibili.
I forzati di Internet. Per poter licenziare personale, il passeggero è costretto ad arrangiarsi con le prenotazioni on-line, sperando di non sbagliare i numerini delle date e del volo, ed essere forzato a pagare le penalità da riscatto principesco per cambiarlo. Ma prenotare per via umana, comporta un sovrapprezzo.
Toilette a pagamento. L’idea fu fatta circolare brevemente dalla Ryan Air e abbattuta da una fittissima contraerea di insulti e proteste. Per ora, non se ne è fatto nulla, ma non disperate.
La nonna ti salverà. Lontanissimi i tempi delle “hostess” da concorso di bellezza, il personale di bordo nelle lunghe tratte delle compagnie americana è composta da vegliardi e vegliarde costretti a lavorare ancora per non dipendere da pensioni crudeli. Quando decollo, mi domando che cosa mai potrebbe fare quella gentile nonnina dai capelli azzurri in uniforme se dovesse affrontare un atterraggio d’emergenza e un’evacuazione nel panico.
Le sale per VIP, “Very Illusi People”. Chiamate pomposamente “lounge” e decantate come luoghi di deliziose attese per passeggeri che hanno speso fortune per un biglietto in business, offrono ormai salatini e nocciolione, in sontuosi buffet da scimmiette.
C’è ormai soltanto un momento di piacere, per il viaggiatore. È quando le ruote del carrello piombano con un tonfo e un sobbalzo sulla pista di atterraggio. La tortura è finita.
Poi comincia la caccia alla valigia. E la tortura ricomincia.

I consumatori alla prova dell’uragano Sandy (23 novembre)

di Vittorio Zucconi

Uscivano dalle porte sudice del negozio sulla via Dorogomilovskaya di Mosca, con ghirlande attorno al collo, come i lei hawaiiani, soltanto che invece di fiori erano fatte da rotoli di carta igienica tenuti assieme da una corda, per trasportarne di più. Nell’Urss del Socialismo Reale anni 80, la carta igienica era uno dei beni più rari e preziosi, nonostante la non esemplare morbidezza, condannati a scomparire dagli scaffali in poche ore per effetto dell’accaparramento. La certezza che la nuova partita di rotoli sarebbe arrivata chissà quando spingeva ogni cittadino e cittadina russi dotati di un sedere a comperare quanti più rotoli potessero trasportare, magari legati attorno al collo, così garantendo che non ce ne fossero mai abbastanza e la scarsità fosse permanente.
È lo stesso fenomeno di psicosi collettiva che ho visto scattare a fine ottobre, quando sulla Costa Atlantica degli Stati Uniti si è abbattuta un’uragana chiamata Sandy, che ha investito Washington, Baltimora, Philadelphia, New York, Boston. (Nota dell’Autore preoccupato di meritare accuse di misoginia: i nome degli uragani sono fissati ogni anno in ordine alfabetico dal servizio meterologico nazionale, alternando i maschili ai femminili. Il predecessore di Sandy si chiamava Rafael, e si è disperso nell’Oceano, senza fare guai).
Sotto il martellamento dei media, tutti, dalla informazione su carta (non necessariamente igienica) alla Rete, il panico si è scatenato fra le gente. Bottiglioni di acqua, piramidi di scatolame, casse di gallette, cracker e biscotti, cartoni di latte a lunga conservazione, si sono rarefatti in poche ore, quando è apparso chiaro che la carognogna avrebbe puntato su di noi. Ma la prima cosa che è sparita completamente dai supermarket sapete quale è stata? Appunto. La carta igienica.
Sembra che i popoli delle nazioni sviluppate, anche quelle molto parzialmente tali come era la Russia sovietica, possano fare a meno di molte cose, sappiano risparmiare sul cibo e le bevande, rinunciare al trasporto privato per i mezzi pubblici, pigiare sui pedali se la benzina costa come il vino e bere acqua se il vino si fa troppo caro. Ma alla conquista della carta igienica non si rinuncia.
Davanti a me, nelle file alle casse, signore, madri di famiglia, padri con bambini al traino, spingevano, nelle ore che avevano preceduto la mazzata di acqua e vento, carrelli traboccanri di rotoli, facendo intuire preoccupanti consumi da caserma in quella casa o seri disturbi delle vie digerenti. Prodotti di qualità scadente, riservati a coloro che devono risparmiare sui centesimi e abitualmente languono invenduto, volavano via insieme con le celestiali morbidezze pubblicizzate da orsacchiotti (non ho mai capito bene il rapporto fra gli orsi e la toilette personale, ma pare che l’associazione pubblicitaria funzioni). A questi era almeno risparmiata l’umiliazione di uscire dall’esercizio con una ghirlanda di rotoli al collo, come nella Mosca anni 80.
Chi appartiene alla generazione che ancora ricorda con orrore i ritagli offensivi di quotidiano o, peggio, di rotocalco, appesi a un chiodo nei gabinetti pubblici può capire l’ansia con la quale oggi la cittadinanza si preoccupa della carta igienica prima di preoccuparsi di cibo, acqua, batterie per le torce elettriche, medicinali, candele o coperte nell’imminenza di una catastrofe. Nella New Orleans del dopo uragano Katrina, nel 2005, questo prezioso articolo sanitario era diventato la prima voce nell’elenco dei beni venduti a borsa nera.
Ma ci deve essere qualche cosa di più profondo in quelle cataste di rotoli che vedevo uscire dai negozi. C’è il bisogno di proteggere la propria intimità più intima, la propria privatezza più privata dall’aggressione bestiale del maltempo che tenta di riportarci tutti allo stato di natura più primitivo. Tutte le creature bevono, mangiano, eccetera. Io sono umano perchè uso la carta igienica. Oppure è semplicemente il prodotto della barbara ostinazione con la quale gli americani rifiutano di accettare una delle massime conquiste della civiltà: il bidet.

La tentazione abita in albergo (16 novembre 12)

di Vittorio Zucconi

È arrivato il momento di confessare. Sono un ladro. In una vita di viaggi e di stanze d’albergo, ho riempito valigie di saponette, flaconcini di creme e lozioni che si sono poi malinconicamente pietrificate in fondo ai cassetti, salviette con le insegne della catena alberghiera ricamate sopra. E soprattutto il più grave dei miei bottini: gli accappatoi. Nel momento di cleptomania più acuta, rischiai non l’arresto, ma il divorzio, quando mia moglie, alla vista dell’ennesimo accappatoio di morbida spugna insaccato a fatica in una valigia, minacciò di andarsene da casa se ne avessi portato un altro dai miei viaggi. Il mio “colpo” più sensazionale avvenne a Modena, in un modestissimo alberghetto chiamato Della Libertà che si prendeva una piccola rivincita sui ladri stampando sui piatti la scritta “Rubato all’albergo della Libertà”. Almeno il marchio della vergogna sarebbe rimasto con il “topo””ogni volta che avesse usato quel piatto.
Gli albergatori lo sanno benissimo e accettano il fatto che gli ospiti portino via piccoli oggetti da toilette, che sono già inclusi nel prezzo della camera. Nei loro souvenir shop offrono in vendita gli accappatoi, sperando di indurre nel ladro qualche sussulto di coscienza al momento di andarsene. Ma il gusto del ricordino a sbafo, dell’asciugamano o dell’accappatoio con lo stemma ricamato non è qualcosa che si possa acquistare, come il brivido criminoso del rischio di essere scoperti con la refurtiva nel bagaglio non ha prezzo.
Lo sanno talmente bene, gli osti (manager, si dice oggi) che uno degli hotel più famosi della Galassia, il Waldorf Astoria di Manhattan, dove pernottavano i Kennedy, i Roosebvelt e oggi gli Obama, insieme con notori gangster e Marilyn Monroe che vi abitò per mesi, ha offerto, più per l’effetto marketing che per interesse venale, una amnistia totale, noi diremmo “un condono tombale” a tutti coloro che in passato si fossero fregati qualcosa.
È uscito di tutto, ben oltre i miei modesti bottini di spugna e di lozione. La nonna di un’impiegato dell’albergo si è finalmente sollevata la coscienza restituendo una forchettina di alpaca, il falso argento molto usato nella posateria degli hotel, che si era infilata nella borsetta durante il proprio banchetto di nozze. L’anno era il 1949.
Sono rientati a casa tazze di porcellana, piatti e posate, abbastanza per un sontuoso corredo. C’è chi si era portato via cartelli “Do not disturb” che avevano appeso fuori dalla porta nella prima notte di nozze, ma anche oggetti di valore, come una pesantissima zuppiera sempre di alpaca, completa di sottopiatto e di coperchio, che ci si domanda come il ladro abbia fatto a portare fuori inosservato. O la ladra, visto che il Waldorf fu il primo hotel in America, o forse nel mondo, ad accettare come ospiti donne sole.
Una ricca signora del New Jersey, ottantenne, ha restituto ventiquattro coltellini spalmaburro. Ne aveva preso uno come souvenir per ciascuno dei ventiquattro anni nei quale aveva, a proprie spese, organizzato in un salone dell’albero feste di beneficenza.
Non ci sono, almeno tra coloro che si sono auto identificati non avendo nulla da temere, distinzioni di razza nè di status sociale, anche se fra gli ospiti che hanno pagato i conti dell’hotel non ci sono mai stati poveracci senza tetto. Ci sono più donne che uomini, come la natura degli oggetti sottratti e rimandati dimostra. Ma invano si è sperato che, fra tanta oggettistica minore (zuppiera a parte) rientrasse alla base anche una pesantissima porta di vetro da doccia.
Era stata installata per Frank Sinatra, un ospite regolare, con le sue iniziali incise sopra e veniva montata quando “Old Blue Eyes”, il vecchio occhi azzurri, tornava nella propria suite abituale e poi rimossa, per farlo sentire a casa. Visto il peso e le dimensioni, non fu certamente lui, o un altro cliente, a portarsela via nascondendola in valigia. Certamente oggi adorna il bagno di qualche ricco collezionista di oggetti appartenuti a celebrità, attraverso il mercato nero.
Ma finora, neppure un accappattoio è stato restituito. La mia coscienza, avvolta in morbida spugna, tace soffocata.

Nuotando con gli squali (09 novembre 12)

di Vittorio Zucconi

Sono poche, sono forti, sono sempre di più e sempre più in alto. Sono le “capitane d’industria” americane, le bambine cresciute dopo le marce e le battaglie del femminismo negli anni 60 e 70 e che oggi raccolgono quello che le loro madri e nonne avevano seminato. Sono 65 sulle 500 maggior, le corporation guidate da presidentesse, appena il 13%. Ma trent’anni or sono erano molte di meno: una. E la quantità non significa qualità. Alcune di quelle aziende sono colossi, in ogni settore.
Indra Nooyi, a 56 anni, presiede la Pepsi Cola, che è molto più di una multinazionale della gazzosa. Nooyi è una Tamil, nata a Madras, in India, e immigrata, dunque con il doppio handicap iniziale di essere femmina e straniera. Per le sue fatiche, è pagata 17 milioni di dollari all’anno.
Ginni Rometty, a 55 anni, è al volante della IBM, regina dell’informatica professionale e industriale. È doppiamente sbalorditivo che Ginni sia salita sulla cima di un’azienda come la IBM senza avere Master, Dottorati, titoli sonanti. Ha una semplice laurea quadriennale in ingegneria elettronica, una qualifica che nell”universo di “cybergenietti” che lavorano alla IBM sembra poco più di una licenza media in un consiglio di facoltà.
Meg Whitman, un’altra cinquantenne, deve tentare di rimettere in rotta di navigazione la grande barca della Hewlett Packard, già padrona delle macchine per ufficio e dei PC, oggi sbandata. Se la deve vedere con un’altra donna, Ursula Burns, che presiede la diretta concorrente, la Xerox. Duello di femmine alfa.
Nell’impero della chimica regna Ellen Cullmann, amministratrice delegata della DuPont. E se qualcuno guarda con sospetto alle grandi del complesso “agro industriale” se la prenda con Patricia Woertz, signora della Archer Daniels Midland. Dal suo ufficio in Illinois, Patricia controlla 82 miliardi di dollari di vendite, 270 filiali in tutto il mondo e la fetta più grossa di produzione di cereali, amido, soia, girasoli, mais, ricevendo periodiche denunce per monopolio. È una donna, mica una benefattrice.
Dietro le reti tv della Disney c’è Anne Sweeney, che dal proprio settore Media genera 19 miliardi di proventi ogni anno. E se è comprensibile che la Avon cosmetici sia in mano a una donna, il recinto delle produzioni classicamente femminili è stato abbattuto da tempo. La General Dynamics e la Lockheed Martin, colonne del settore militar-industriale, tutto cannoni e niente burro, hanno signore, non ex generali o politicanti, alla loro guida.
La presidentessa della Wal-Mart, catena di supernegozi discount, è Giselle Ruiz, figlia di un’immigrata messicana che friggeva tacos e frijoles per mandarla a scuola. Controlla un milione e mezzo di dipendenti (poco pagati), 3.800 outlet e 264 miliardi in vendite. Essendo due terzi dei clienti Wal-Mart donne, è sembrato logico che a organizzare la catena fosse una di loro.
Se volete fare arrabbiare sul serio queste donne domandate loro se il fatto di essere femmine le abbia ostacolate o le abbia favorite. “La formula delle quote per genere o per razza”, ha detto Indra, la tycoon delle bibite, “può forse funzionare nel settore pubblico, dove è impossibile misurare i risultati, ma in quella piscina degli squali che è il mercato, nessuna di noi sopravviverebbe un giorno”.”Le quote mi hanno sempre irritato molto”, aggiunge Anne dalla Disney, “perchè ci appiccicano l’etichetta di una che ha fatto strada perché è donna e le hanno aperto la porta. È in fondo offensivo e riduttivo quanto il sospetto su quella che è andata avanti saltando da un letto all’altro”.
Qualcuna di loro ha dovuto rinunciare a farsi una famiglia, ma molte sono state e sono, madri e mogli. Indra della Pepsi ha due figlie ormai grandi e all’università. Irene Rosenfeld, figlia di un ebreo rumeno fuggito negli Usa, guida la Kraft, quella delle “cose buone dal mondo”, ma ha trovato il tempo per allevare due figli.
Giorno dopo giorno, il momento in cui sarà inutile e ridicolo scrivere un pezzo come questo sulle “capitane d’industria” si sta facendo sempre più vicino.
In America.

Neanche la magica carta verde ha salvato la piccola Lundy Khoy, clandestina e precaria. Per amore (27 ottobre 12)

di Vittorio Zucconi

Il rettangolino di plastica mi arrivò un giorno del 1996 e fu una liberazione. La chiamavano “carta verde”, anche se verde non era più da tempo, ed era il permesso di residenza permanente negli Stati Uniti. Non avremmo più dovuto vivere legati a visti, contratti, attestati, certificazioni, e la mia famiglia non sarebbe più esistita legalmente in America soltanto appesa al mio visto temporaneo di giornalista. Chi non ha mai vissuto e lavorato in una nazione diversa da quella in cui è nato, e della quale è cittadino, non conosce l’ansia costante che accompagna l’essere perennemente “stranieri” anche senza essere “clandestini”. Ci si sente più liberi. Si esiste. Era quello che pensava Lundy Khoy, una giovane donna di 31 anni nata nella Cambogia ancora sottoposta al governo dei Khmer Rossi, quelli resi lugubremente celebri dal demente Pol Pot e dai killing fields, i campi della morte.
Lundy era scappata dalla Cambogia in braccio alla madre -aveva pochi mesi – finendo poi in un accampamento di profughi in Thailandia. Un ponte aereo organizzato dal governo americano – sempre molto generoso con le vittime dei “rossi”, Khmer o no, e molto più tirchio con i succubi di despoti di colore diverso – l’aveva portata fino ai sobborghi di Washington. Alla donna e alla figlia era stato subito concessa la magica “carta verde”, sotto lo scudo dell’asilo politico.
La vita di Lundy Khoy era stata simile a quella di tanti altri figli di profughi asiatici. La madre, che faceva tre lavori al giorno – lavapiatti, donna delle pulizie, aiuto cuoca in un ristorante, il tutto per 18 ore – l’aveva allevata con la severità tradizionale della propria terra. “Per tutto il liceo”, dirà Lundy, “non potei mai uscire alla sera, neppure nel fine settimana”.
Avrebbe potuto chiedere, diventata maggiorenne, a 18 anni, che il permesso di residenza diventasse cittadinanza, come chiunque può fare dopo cinque anni di “carta verde”. Ma aveva 17 anni quando fu accettata all’Università George Mason della Virginia. E come tanti teenager improvvisamente liberi e padroni della propria vita, perse la testa.
Si innamorò di un compagno – lei che non era mai uscita, neppure una volta, con un ragazzo – che spacciava ecstasy nel campus. Furono arrestati insieme e lei fu trovata con cinque compresse nella borsetta. Per non sconvolgere la madre, raccontò alla polizia che non ne faceva uso, ma le teneva soltanto per il suo ragazzo che le vendeva. Non si rese conto che da semplice consumo, il suo diventò spaccio, un reato grave, con sentenza obbligata. Il tribunale le diede due anni con la libertà condizionata. E le cancellò automaticamente la “carta verde”. La legge sull’immigrazione lo impone.
Fu allora che la ragazza cambogiana scoprì quello che molti non sanno:che quei 13 milioni di persone che portano in tasca la “carta” se la possono vedere ritirata in ogni momento, ed essere deportati nel Paese di origine, con altri 400mila espulsi ogni anno.
Ma quattordici anni dopo, Lundy abita ancora a Washington, perché nessuno la vuole. La Cambogia, o Kampuchea come oggi preferisce farsi chiamare, non accetta più di 400 deportati all’anno e respinge le sue domande di visto. E le autorità americane non possono scaricarla in un’altra nazione, a caso. Legalmente, lei non esiste più. Galleggia in un limbo, in un universo parallelo, dove sopravvive facendo lavori in nero, perchè senza quella “Carta” non può essere assunta da nessuno. Ha scontato la pena che le era stata inflitta, e ha vissuto da allora senza prendere neppure una contravvenzione per sosta vietata, aggrappata al solo documento che le sia rimasto, la patente di guida. Non parla e non legge una parola di khmer. “Potrei soltanto fare la prostituta”, ha detto all’avvocato di un centro che difende gratuitamente le persone nelle sua condizioni, o “rapinare un negozio per essere mantenuta in carcere”.
Non dev’essere un caso se la nuova agenzia americana formata, nel panico del “dopo 11 settembre”, per applicare le norme sull’immigrazione e le dogane, si chiama Immigration and Customs Enforcement. è conosciuta da tutti con le iniziali: “ICE”. Ghiaccio.

Come è strano innamorarsi in ufficio (20 ottobre 12)

di Vittorio Zucconi

Innamorarsi in ufficio, nella speranza, e nella paura, di trovare negli sguardi che si incrociano, nelle pulsazioni che aumentano, la sola luce nella opprimente monotonia del lavoro. Ma il disperato sogno del ragioner Fantozzi per la irraggiungibile signora Silvani, sfuggente civetta, è sempre più realtà, e dunque sempre più incubo, nel mondo dei colletti bianchi e delle camicette. Nel gergo delle direzioni del personale, che oggi si dovrebbero chiamare con l’acronimo HR, per Human Resource (l’inglese sembra rendere tutto più moderno, anche quando è storia vecchia) si chiamano Office Romances le relazioni amorose sviluppate in ufficio, e sono oggetto di attenzioni e preoccupazioni ormai non inferiori ai problemi di organigrammi, retribuzioni, costi e assunzioni. Un passo falso fra dipendenti infatuati o innamorati, un’avance non voluta, un segnale amoroso frainteso, un’avventura fra impiegati di livello diverso, può portare anche la più grande società in tribunale.
Gli anni e il clima raccontati dalle serie televisiva Mad Man, ambientata nel mondo della pubbllcità a Madison Avenue, nel quale le donne erano soltanto segretarie e ogni segretaria era (e sapeva di essere) una preda, è finito. Nel 2011 solo le superbanche e le finanziarie di Wall Street, dove evidentemente non si pensa soltanto a come spremere soldi ai clienti e fare acrobazie finanziarie, hanno speso almeno 500 milioni di dollari in danni a dipendenti femmine, per mobbing e molestie sessuali. Una somma stimata, probabilmente inferiore alla realtà, perchè molti casi vengono messi a tacere con somme di danaro discretamente pagate prima di arrivare in tribunale, con l’impegno del silenzio.
Ma non ci sono pericoli per la carriera, minacce di licenziamento, corsi di sensibilizzazione, ormai obbligatori in tutte le grandi corporations, che possano eliminare il rischio, o la speranza, che negli uffici scatti una scintilla. Il gioco del cacciatore e della preda è molto cambiato anche nella forma: nel 40% delle relazioni amorose nate sul lavoro sono le femmine a prendere l’iniziativa, e in maniera esplicita. Anche il tempo dell’avventura, della relazione clandestina sembra passato. L’ultima ricerca, condotta dall’Istituto demografico Harris su 10mila impiegati, funzionari e dirigenti, ha scoperto che un terzo delle relazioni amorose nate al lavoro finiscono in un matrimonio. E un altro terzo producono coppie stabili, conviventi di lungo corso.
L’emancipazione professionale delle donne ha quindi generato due fenomeni nuovi, per l’amore nel tempo del lavoro. Meno “one night stand”, meno sveltine da una sola notte, e più storie serie, anche dalla scrivania all’altare o al municipio. Meno boss che si trastullano con dipendenti intimidite e più colleghe e colleghi, anche in amore. Il piano inclinato sul quale scivolavano le donne ruzzolando fino al sofà del signor direttore si sta equilibrando e continuerà a bilanciarsi con il lento avanzare delle donne verso incarichi di comando.
Forse l’esempio più vistoso di questa nuova epoca della “Office Romance” si vede proprio nell'”Office” più importante d’America. Dov’è lontano il ricordo dello squallido eppure classico scandalo Clinton-Lewinsky: per ora, e almeno fino al gennaio del prossimo anno, vive alla Casa Bianca una coppia che si era formata proprio in ufficio.
Quando un giovane avvocato, appena sfornato dalla facoltà di legge, trovò lavoro in uno studio legale di Chicago, gli fu assegnato come mentore e guida un’avvocatessa più giovane di lui, ma più esperta. Ancora non è chiaro chi dei due fece la prima mossa: lei finge, con premura per la vanità maschile, di avere prima respinto e poi ceduto agli inviti del collega. Il risultato di quella storia è noto. Vent’anni di matrimonio, due figlie e una bella villa con l’affitto almeno quadriennale pagato dai contribuenti elettori, la Casa Bianca. I loro nomi erano Michelle Robinson e Barack Hussein Obama.
E fortunatamente per loro, e forse per gli Stati Uniti d’America, il capo del personale del premiato studio legale Sidley Austin di Chicago non interruppe, vent’anni or sono, quell’amore fiorito fra i codici.

Il vero yankee ha una lingua sola (13 ottobre 12)

di Vittorio Zucconi

Come si chiama una persona che parla tre lingue? Trilingue. Chi ne parla due? Bilingue. E chi parla una sola lingua? Americano. È una vecchia battuta, ma vera. Il rifiuto di imparare altre lingue, oltre all’inglese, è paragonabile solo a quella di noi italiani, perennemente fra gli ultimi nelle nazioni dell’Unione Europea in fatto di lingue.
Neppure gli immigrati del mondo ispanico a sud della frontiera del Rio Grande hanno migliorato radicalmente il testardo “monolinguismo” degli americani. È stato calcolato che in città come Miami, San Antonio, Los Angeles, dove si concentrano le massime comunità di “latinos”, un immigrato dal Messico, da Cuba, dall’Honduras, da qualsiasi nazione dove si parli lo spagnolo, può nascere, vivere, sposarsi, lavorare, pagare le tasse, fare fortuna, mettersi nei guai, curarsi, professare la propria fede, giocare, morire ed essere sepolto senza conoscere una parola di inglese.
Studiare e imparare davvero una lingua straniera è qualcosa che gli “anglo” considerano, più che una perdita di tempo, quasi un tradimento. Con le solite eccezioni di licei e di università particolari, le scuole, soprattutto quelle pubbliche, insegnano le lingue anche peggio delle nostre. Gli insegnanti ci sarebbero, visto che ogni linguaggio del mondo è rappresentato negli Usa e soltanto a New York si parlano 85 fra lingue e dialetti diversi. Ma più forte è l’indifferenza di famiglie e studenti che considerano quelle ore come perdite di tempo. Pensano di non avere bisogno di faticare con ideogrammi cinesi, caratteri cirillici, arabo, con gli accenti del francese o con la pronuncia dell’italiano, apparentemente facile per chi lo ha imparato con il latte della mamma. Riuscire a far pronunciare a un americano la parolina “tutti”, in modo che non suoni come “ciucci” è duro come convincere un italiano a non dire “buuling” parlando di bocce e birilli.
Conoscere troppo bene una lingua straniera, se non si lavora per il Dipartimento di Stato o per la Cia, è guardato con sospetto, come un segnale di arroganza e forse di scarso patriottismo. Teresa Heinz, la moglie del candidato democratico alla Casa Bianca nel 2004, John Kerry, colta signora Ketchup di origine portoghese, fu scorticata viva per avere cominciato il proprio discorso al Congresso del partito con un saluto multilingue in italiano, portoghese, spagnolo, tedesco, francese. Un’insopportabile snob.
La Società Nazionale per l’Insegnamento delle Lingue ha notato che nei licei americani anche privati si spendono più ore a insegnare lingue morte come il latino e il greco antico (quello che i Greci non parlano più) che per insegnare lingue vive. E se qualche governo straniero finanzia la diffusione della propria cultura anche alle elementari, pagando il modesto stipendo di maestre di lingua, altri, come quello italiano, tagliano i pochi fondi anche per insegamenti part time.
Le lingue straniere sono usate al massimo come “gimmick”, espedienti di marketing per lanciare prodotti. La VW usava un impossibile e impronunciabile parola composta tedesca “Fahrvergnügen” (il piacere di guidare) per sedurre clienti con espressioni esotiche. I venditori di alimentari amano i suoni italianeggianti, producendo ridicole, alle nostre orecchie, focacce chiamate “Freschette”, beveroni come il “Frapuccino”, pesci ad alto contenuto artistico detti “Bronzini” (che sarebbero i branzini) e l’ultima versione del caffelatte freddo batezzato “Coolata”, che si pronuncia come “culata”.
Gli americani, scrisse il grande umorista Art Buchwald, non vogliono imparare lingue straniere perché sono persuasi che ogni essere umano, dalle Ande alla Kamchatka, conosca l’inglese. Che dentro la testa di ciascuno di noi viva un omino o una donnina che attenda soltanto di sentirsi rivolgere la parola in inglese per capire e rispondere. Lo spettacolo del turista americano che tenta, con voce sempre più alta, di chiedere direzioni in inglese a un pizzardone romano senza ottenere soddisfazione è una delle poche scenette esilaranti offerte dalla triste Roma di oggi.
C’è soltanto da sperare che quel turista americano, frustrato e assetato, non chieda al vigile dove può prendere una “culata”.

La taglia giusta ti salva la vita (6 ottobre 12)

di Vittorio Zucconi

È uscita in America una nuova linea di “intimo” femminile che non vedrete pubblicizzata sulle pagine di questo settimanale e cerchereste invano nei reparti donna anche del più sontuoso e fornito centro commerciale. È un intimo che più intimo non si può, perchè non protegge e sorregge o esalta soltanto qualche sezione del corpo femminile, ma la vita stessa di chi lo indossa. È il primo giubbotto antiproiettile finalmente pensato e disegnato per le donne soldato.
I generalissimi e i civili che comandano e amministrano le forze armate americane hanno finalmente scoperto, dopo attente ricerche, che le femmine sono generalmente fatte diverse dai maschi. Possiedono, e qui non vorrei cadere nelle solite esagerazioni giornalistiche, seni. Hanno torace e spalle mediamente più piccoli di quelli maschili. Vita – anche qui, generalizziamo – più stretta e fianchi più larghi.
Eppure anche per le 250 mila donne che indossano l’uniforme e che sono quotidianamente esposte alle pallottole dei nemici, soprattutto in Afghanistan, il giubbotto di Kevlar, la fibra artificiale più resistente e leggera dell’acciaio, la misura di quell’indumento era la stessa dei maschi.
Giubbotti concepiti per uomini di un metro e ottanta per ottanta chili di peso, sono portati da donne come la sergente Bobbie Crawford, del Texas, che pesa 55 chili per un metro e sessanta. “È una tortura – ha lamentato in molte lettere ai superiori – È sempre troppo lungo, e urta contro i fianchi a ogni passo creando piaghe da sfregamento. È sempre troppo stretto o troppo largo nel torace”. Come direbbe qualsiasi signora nella sala prova di un negozio di abbigliamento, non “veste” bene. E non ci sono sarti al fronte che possano riprendere gli orli o adattarlo alla propria figura.
È una questione di vita o di morte. Nonostante il divieto, ormai teorico, di impiegare le femmine in azioni di combattimento a fuoco, sempre più donne cadono al fronte, soprattutto delle guerre “asimmetriche”, come le chiamano gli esperti (che Dio ci protegga dagli esperti) dove non si affrontano più reparti in bell’ordine sui campi di battaglia allo squillare delle trombe, noi di qua, voi di là.
Il cecchino che spara su un’uniforme dal proprio nido nascosto a distanza di centinaia di metri non conduce esami sui cromosomi, come i giudici delle Olimpiadi. Non sa se quella figura infagottata in un’uniforme mimetica, coperta dall’elmetto, con il viso nascosto dagli occhialoni, che sta alla guida di un camion, di una jeep o di un elicottero, porti il reggiseno sotto la divisa. Tira al suo bersaglio e basta. Fa saltare la mina sotto l’automezzo e chi c’è dentro c’è dentro.
Sono cadute 143 donne soldato americane, nelle guerre in Afghanistan e in Iraq, e 2300 sono state ferite seriamente. Dunque la distinzione fra combattimento e supporto, e le resistenze dei tradizionalisti ancora fedeli all’illusione che alle donne (prima le donne e i bambini, si diceva) siano risparmiate le infamie delle guerre appaiono sempre più insensate. La Bomba di Hiroshima, come i jumbo jet che penetrarono nelle Torri Gemelli, non chiesero documenti alle vittime. Da ormai un secolo, la guerra è una falciatrice di pari opportunità.
Se si accetta, e non si vede come lo si possa rifiutare, che anche le femmine possano partecipare al terribile gioco dell’uccidere o essere uccise, non soltanto nei film di fiction come “Hunger Games”, devono essere protette e vestite come il loro corpo esige.
Quando finalmente anche le soldatesse potranno indossare una protezione antiproiettile che “si porti” bene, e non a rifiutarla come alcune fanno per risparmiarsi la tortura di quella corazza, forse qualcuna di loro si ricorderà con gratitudine di chi inventò quella fibra salva vita.
Era un donna. Si chiamava Stephanie Kwolek e fu la prima laureata in chimica impiegata, molto a fatica, da una grande azienda, la DuPont, nel 1945. Oggi ha 90 anni e il suo Kevlar aiuterà qualche “sorella in uniforme”, se non proprio a campare 90 anni, almeno a non morire giovane, soltanto perchè indossava una taglia sbagliata di intimo.

La sfortuna di non essere in via d’estinzione (1 ottobre 12)

di Vittorio Zucconi

Al lupo! Al lupo! E a furia di gridare al lupo, il lupo arrivò davvero. Arrivarono in tanti, più di quanti avevano sperato gli amici di questo stupendo animale, nel 1995, quando un gruppo di sessantasei lupacchiotti e lupacchiotte grigi catturati nelle foreste del Canada furono trapiantati nel parco di Yellowstone.
Erano ragazzi, adolescenti non ancora adulti, e fecero un viaggio terribile. Anestitazzati, poi sedati, ingabbiati, e trasportati in camion, dovettero aspettare 36 ore alla fine del lungo viaggio prima che un giudice respingesse la petizione presentata in extremis dalla associazione degli allevatori del Wyoming.
Furono finalmente liberati dalle gabbie e sistemati in un ranch perchè si acclimatassero e diventassero adulti. Si acclimatarono così bene, e gradirono talmente la rispettiva compagnia, che diciassette anni dopo, quando quei primi arrivati hanno raggiunto quel pezzetto di cielo nel quale i lupi corrono fra le nuvole, sono diventati migliaia. Quasi due mila lupi grigi, e fra di loro centonove coppie sposate e attivissime oggi si muovono nel nord ovest degli Stati Uniti, dove non vivevano più da quando l’ultimo di loro era stato ucciso dai cacciatori nel 1926.
Il premio, per essere tornati e per essere cresciuti tanto, è che ora potranno essere di nuovo uccisi, con fucili o con l’atrocità delle trappole. Quel numero di nuovi nati e di adulti li ha tolti dalla liste ufficialmente delle speci minacciate di estinzione e dunque possono essere di nuovo obbiettivo del più spietato predatore che la Terra abbia mai prodotto: noi uomini. La loro colpa è di avere fatto i lupi, colpa che può soprendere chi pensasse che un lupo quello sa fare e non molto altro. E di averlo fatto troppo bene.
Essendo creature particolarmente intelligenti e organizzate, e non avendo grandi nemici naturali (noi a parte) visto che anche gli orsi preferiscono stare alla larga dai lupi e anche dai cuccioli accompagnati da parenti, hanno capito in fretta che mucche e buoi sono ottime fonti di nutrimento, con il vantaggio di essere molto più pratiche dei bisonti, che a volte si scocciano di fare da preda e usano le loro corna.
I ranch e gli allevamenti della zona, quelli che avevano disperatamente combattuto nei tribunali contro il ritorno del lupo, si sono finalmente ribellati, ora che il numero dei branchi e delle coppie fertili si avvicina ai duemila e hanno avuto il permesso del governo di abbatterli, da questo 30 settembre alla fine di novembre.
Potranno sopravvivere, nel parco di Yellowstone, nel Montana, nell’Idaho, non più di 400 animali, considerata la quantità minima indispensabile per garantire la diversità del dna fra i nuovi nati e quindi la sopravvivenza della specie. Sarà una strage.
Ne saranno felici gli allevatori, le mucche, i manzi e soprattuto le alci, che in assenza dei loro avversari naturali si erano moltiplicate fuori controllo. Avevano rosicchiato la scorza di abeti e brucato le piante piu basse, mettendo nei guai le foreste, facendo entrare più luce solare, scaldando l’acqua dei torrenti, e decimando trote e altri pesci che preferiscono temperature più basse.
Quei due mila lupi, instancabili cacciatori, avevano cominciato a ristabilire un po’ di equilibrio ecologico nel quale tutto, vegetazione e animali, acqua e luce, si tiene sul filo. E ora, per avere fatto quello gli uomini avevano chiesto ai quei sessantasei pionieri deportati in gabbie dal Canada, per essersi acclimatati e riprodotti, per avere protetto i loro cuccioli e riportato un po’ di ordine nel mondo crudele, ma spietatamente logico di mamma Natura, saranno fucilati. O, peggio, torturati dalle ganasce di ferro delle trappole che imprigionano le loro zampe e li uccidono lentamente.
Chissà che favole racconteranno le lupe ai loro cuccioli, per tenerli buoni e farli addormentare. Dormi, lupetto, stai quieto, perchè altrimenti arriva la nonnina.

Fra i tanti pericoli che una storia come quella fra David e Paula, fra il generale e la scrittrice comporta, c’è quello di cadere nel “maccarthysmo sessuale”. Nell’abbandonarsi a una caccia alle streghe del sesso come se qualsiasi relazione amorosa fuori dal seminato dovesse necessariamente portare alla rovina terrena dei partecipanti, in attesa dell’eternità a soffriggere in una padella infernale. La distruzione di David Petraeus e della sua super biografa Paula Broadwell, oltre che dei rispettivi coniugi, può spingere a pensare che ogni e qualsiasi storia d’amore nata sul luogo di lavoro sia l’equivalente di una centrale nucleare scoperchiata e fusa.
Non è vero, e lo è sempre meno. Anche se un campo di battaglia in Afghanistan non può essere considerato come l’ufficio paghe e contributi di una qualsiasi azienda, era sempre quell’universo del lavoro che oggi è la principale incubatrice di storie e di incontri. L’Office Romance, l’amore nel tempo dei terminali, dei cubicoli, dell’officina, delle scrivanie non è da tempo più l’eccezione, ma la normalità. Se tre donne su quattro lavorano fuori casa negli Stati Uniti, quello, non più la chiesa, la scuola, la spiaggia, il circolo, o il deprimente “mercato della carne” al banco di un bar per rimorchiare o essere rimorchiati dopo adeguate ingestioni di alcolici nel week end, sarà il luogo dove nascono relazioni.
A dispetto del pregiudizio negativo sugli amori effimeri da ufficio, più di una relazione su tre (il 38 per cento, se volete essere pignole) finisce con un matrimonio, e la metà conduce a una convivenza prolungata almeno di sei mesi, salvo complicazioni. Le proverbiali “sveltine” sono una piccolissima parte.
Proprio la diffusione dell’amore all’ombra del boccione dell’acqua ha imposto nuovi codici di comportamento che non sono il “maccarthysmo sessuale” del puritanesimo bacchettone, ma di buon senso e di regole. Il confine fra la classica “corte” e il mobbing o le molestie deve essere chiaro e spiegato bene al personale. Cortesia, sorrisi e manifestazioni di simpatia non devono essere interpretate come segnali che “ci sta”, errore nel quale molti uomini, nella certezza vanesia del proprio irresistibile fascino, cadono, con conseguenze pessime per tutti.
Si dovrebbero evitare relazioni troppo squilibrate nel livello professionale dei colombi, genere Bill Clinton, Presidente degli Stati Uniti con Monica Lewinsky, stagista. Il progresso delle donne nelle loro carriere è destinato, nel tempo, a rendere meno sbilanciato il terreno del gioco amoroso, anche se non si possono escludere a priori autentici innamoramenti fra piani diversi. Bill Gates, il multimilairdario creatore della Microsoft ha sposato una sua modesta dipendente, Melinda French, un’impiegata che aveva, inaspettamente per lei che ci rimase di sasso, invitato a cena. Sono coniugati da ormai 25 anni, dunque non si trattò dell’avventura del “sciùr padrùn” con la segretaria.
Barack Obama violò un poco la legge non scritta della bilancia, sfacciatamente invitando a uscire la propria diretta superiora, Michelle, ma la cosa si risolse abbastanza bene e senza querele, pur essendo entrambi avvocati. E anche Bradd Pitt e Angelina Jolie, che si erano conosciuti nel loro ufficio, il set di Mr. and Mrs. Smith dove erano co-star, hanno deciso quest’anno, dopo matura riflessione, sette anni di convivenza, tre figlio naturale e tre adottivi, di sposarsi.
Anche il contrario, il puntare troppo in alto, è tanto rischioso quanto il pescare ai piani inferiori. Lisa Nowak, furiosamente gelosa di una collega che le aveva portato via l’amor suo, Wlliam Oefelein, raggiunse notorietà internazionale quando guidò senza sosta fra il Texas e la Florida per raggiungere William prima che sposasse la rivale e indossò un pannolone per non perdere tempo in soste. La sua corsa disperata fu vana e lei ebbe un anno con la condizionale perchè accecò temporaneamente il traditore con spray al pepe.
William Oefelein era un astronauta della Nasa. Lisa aveva puntato troppo, troppo in alto, fino alle stelle.
Fra i tanti pericoli che una storia come quella fra David e Paula, fra il generale e la scrittrice comporta, c’è quello di cadere nel “maccarthysmo sessuale”. Nell’abbandonarsi a una caccia alle streghe del sesso come se qualsiasi relazione amorosa fuori dal seminato dovesse necessariamente portare alla rovina terrena dei partecipanti, in attesa dell’eternità a soffriggere in una padella infernale. La distruzione di David Petraeus e della sua super biografa Paula Broadwell, oltre che dei rispettivi coniugi, può spingere a pensare che ogni e qualsiasi storia d’amore nata sul luogo di lavoro sia l’equivalente di una centrale nucleare scoperchiata e fusa.
Non è vero, e lo è sempre meno. Anche se un campo di battaglia in Afghanistan non può essere considerato come l’ufficio paghe e contributi di una qualsiasi azienda, era sempre quell’universo del lavoro che oggi è la principale incubatrice di storie e di incontri. L’Office Romance, l’amore nel tempo dei terminali, dei cubicoli, dell’officina, delle scrivanie non è da tempo più l’eccezione, ma la normalità. Se tre donne su quattro lavorano fuori casa negli Stati Uniti, quello, non più la chiesa, la scuola, la spiaggia, il circolo, o il deprimente “mercato della carne” al banco di un bar per rimorchiare o essere rimorchiati dopo adeguate ingestioni di alcolici nel week end, sarà il luogo dove nascono relazioni.
A dispetto del pregiudizio negativo sugli amori effimeri da ufficio, più di una relazione su tre (il 38 per cento, se volete essere pignole) finisce con un matrimonio, e la metà conduce a una convivenza prolungata almeno di sei mesi, salvo complicazioni. Le proverbiali “sveltine” sono una piccolissima parte.
Proprio la diffusione dell’amore all’ombra del boccione dell’acqua ha imposto nuovi codici di comportamento che non sono il “maccarthysmo sessuale” del puritanesimo bacchettone, ma di buon senso e di regole. Il confine fra la classica “corte” e il mobbing o le molestie deve essere chiaro e spiegato bene al personale. Cortesia, sorrisi e manifestazioni di simpatia non devono essere interpretate come segnali che “ci sta”, errore nel quale molti uomini, nella certezza vanesia del proprio irresistibile fascino, cadono, con conseguenze pessime per tutti.
Si dovrebbero evitare relazioni troppo squilibrate nel livello professionale dei colombi, genere Bill Clinton, Presidente degli Stati Uniti con Monica Lewinsky, stagista. Il progresso delle donne nelle loro carriere è destinato, nel tempo, a rendere meno sbilanciato il terreno del gioco amoroso, anche se non si possono escludere a priori autentici innamoramenti fra piani diversi. Bill Gates, il multimilairdario creatore della Microsoft ha sposato una sua modesta dipendente, Melinda French, un’impiegata che aveva, inaspettamente per lei che ci rimase di sasso, invitato a cena. Sono coniugati da ormai 25 anni, dunque non si trattò dell’avventura del “sciùr padrùn” con la segretaria.
Barack Obama violò un poco la legge non scritta della bilancia, sfacciatamente invitando a uscire la propria diretta superiora, Michelle, ma la cosa si risolse abbastanza bene e senza querele, pur essendo entrambi avvocati. E anche Bradd Pitt e Angelina Jolie, che si erano conosciuti nel loro ufficio, il set di Mr. and Mrs. Smith dove erano co-star, hanno deciso quest’anno, dopo matura riflessione, sette anni di convivenza, tre figlio naturale e tre adottivi, di sposarsi.
Anche il contrario, il puntare troppo in alto, è tanto rischioso quanto il pescare ai piani inferiori. Lisa Nowak, furiosamente gelosa di una collega che le aveva portato via l’amor suo, Wlliam Oefelein, raggiunse notorietà internazionale quando guidò senza sosta fra il Texas e la Florida per raggiungere William prima che sposasse la rivale e indossò un pannolone per non perdere tempo in soste. La sua corsa disperata fu vana e lei ebbe un anno con la condizionale perchè accecò temporaneamente il traditore con spray al pepe.
William Oefelein era un astronauta della Nasa. Lisa aveva puntato troppo, troppo in alto, fino alle stelle.

el silenzio gelido dell’enorme cimitero di Arlington a Washington, dove il microclima del marmo e della terra sempre smossa di recente porta un lugubre fresco anche d’estate, le file delle lapidi raccontano, ognuna di loro, la storia di una vita chiusa da un proiettile o da una bomba. Ma ce ne sono tre che narrano più della tragedia di uomini e donne divorati dalla guerra, narrano la distruzione di una famiglia e di una madre. Sono le tombe dei tre fratelli Wise, nati in Arkansas e caduti in Afghanistan, Jeremy, Ben e Beau.<br />Quando accompagno amici all’inevitabile visita al mauseoleo dei Kennedy, nel cuore del sacrario, dò sempre uno sguardo a quelle tre lapidi assolutamente identiche ai reggimenti delle altre, eppure diverse. So che davanti a loro ci sarà una donna di mezza età, Mary Wise, con i suoi fiori, i suoi strofinacci e spray per tenere pulite le lapidi, i suoi occhi ormai asciutti.<br />La famiglia Wise è stata come la famiglia Ryan del famoso film di Spielberg sul soldato da salvare, ma senza quel brandello di lieto fine che il regista aggiunse al suo dramma immaginario. Nella Seconda Guerra Mondiale, e poi fino al 1973 quando fu abolita, anche negli Stati Uniti vigeva la coscrizione obbigatoria, con una minima precauzione umanitaria: per preservare il nome e la continuità della famiglia le Forze Armate non potevano reclutare tutti i fratelli maschi, a meno che si offrissero come volontari.<br />La “legge di Ryan” non esiste più, da quando l’uniforme è una scelta libera e individuale e dunque non ci fu nulla che il padre e la madre dei tre Wise potessero fare. Quando il più grande, Jeremy, si arruolò nelle forze speciali della Marina, i Seals, subito dopo l’orrore delle Due Torri, Jean e Mary Wise si rassegnarono pensando di avere comunque altre due figli. Quando il secondo, Ben, seguì l’esempio del fratello, i genitori si aggrapparono al terzo, al piccolino, al beniamino. L’annuncio che anche lui, Beau, “bello”, un nome abbastanza frequente nel Sud, li avrebbe raggiunti in Afghanistan, li precipitò nell’angoscia delle notti, e dei giorni, in attesa di notizie.<br />Il padre, più della madre, era sbigottito. La famiglia Wise non apparteneva a quella categoria sociale di piccola gente, di agricoltori, di immigrati da poco, di minoranza che forniscono tanti dei volontari alle Forse Armate. Jean Wise era un famoso e stimatissimo chirurgo ortopedico in Arkansas, con una clinica privata tutta sua e una cattedra all’università. I figli eccellevano a scuola e il loro avvenire era garantito. La facoltà di medicina li avrebbe sicuramente accolti e al padre non mancavano i soldi per la retta anche scontata, essendo lui un docente.<br />Il mistero della loro scelta, che li portò uno dopo l’altro ad essere dilaniati dalle mine interrate sotto le strade afghane fu sciolto dal più piccolo, dal cocco della mamma. Ai «perché, perché» della madre, Beau, prima di lasciare casa, rispose che il merito era tutto suo, di Mary Wise.<br />«Quando ci mettevi a letto», ha riferito le parole del figlio a un giornale americano la donna curva davanti alle tre lapidi che la direzione del cimitero ha permesso di collocare vicine, nonostante i ragazzi siano morti in tempi diversi, «non ci leggevi favole, storie di orchi o di principi o di sirene. Ci leggevi la vita dei grandi soldati americani del passato, di Washington e di MacArthur, di Patton e di Kennedy con la sua motovedetta nel Pacifico, dei volontari caduti nella Guerra Civile per difendere l’Unione, dei patrioti che avevano lasciato la casa e le famiglie per afferrare lo schioppo e combattere contro i mercenari inglesi. Sei stata tu, mamma, a convincerci che sacrificare la propria vita per il nostro Paese è più importante che avere una laurea in legge o in medicina».<br />Non sappiamo, e non ho mai osato avvicinarla, che cosa ora Mary Wise racconti e legga a quei tre figli per consolare il loro sonno e nessuno di noi può permettersi di rimprovarle niente. Ci penserà già lei, ogni ora della sua vita. Ma se proprio volete raccontare ai vostri figli la storia di qualche generale, leggete loro queste parole di WlilliamTecumseh Sherman, il conquistatore e distruttore di Atlanta nella Guerra Civile americana: «La guerra è un inferno e non c’è modo di renderla migliore. L’eroismo è liquore per ubriacare i ragazzi»

2 pensieri su “Hotel America

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